A poco più di sessanta anni dall’entrata in vigore della nostra Carta Costituzionale, che sancisce all’art. 3 il principio dell’uguaglianza e della non discriminazione, e nonostante i numerosi interventi legislativi sia a livello nazionale che comunitario, la questione della parità di trattamento tra lavoratori e lavoratrici purtroppo è sempre attuale.
Inoltre, la recente e interminabile crisi economica non ha fatto altro che aggravare il gender gap, spesso a discapito di quelle lavoratrici che, nonostante un’istruzione ed una formazione superiore rispetto ai colleghi uomini, sono vittime di una maggiore instabilità nell’occupazione. Questo ha determinato una maggiore incidenza del lavoro a termine per le donne rispetto agli uomini ed una minore probabilità di stabilizzazione del rapporto di lavoro, con bassi livelli retributivi e scarsa qualificazione del lavoro svolto rispetto al grado di istruzione e formazione acquisita.
La situazione non si rivela migliore nel settore del lavoro autonomo, anzi è proprio in tale ambito che le pari opportunità vengono maggiormente calpestate, allorquando si decide di formare una famiglia o “addirittura” di avere uno o più figli.
In termini generali si ha discriminazione quando viene perpetrata una ingiustificata differenza di trattamento tra persone, dovuta a fattori determinati dalla legge quali: sesso, lingua, etnia, religione, opinioni politiche e personali, disabilità e orientamento sessuale.
In base alla normativa nazionale e comunitaria possiamo distinguere due forme di discriminazione: discriminazione diretta e discriminazione indiretta.
Si ha discriminazione diretta allorquando, in ragione di uno dei fattori di cui sopra, una persona viene trattata meno favorevolmente di quanto sarebbe stata trattata un’altra in una situazione analoga.
Secondo il disposto dell’art. 2 del D. lgs 145/2005 (decreto di attuazione della direttiva 2002/73/CE in materia di parità di trattamento tra gli uomini e le donne, per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionale e le condizioni di lavoro) costituisce discriminazione diretta “qualsiasi atto, patto o comportamento che produce un effetto pregiudizievole discriminando le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e comunque il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga”.
La discriminazione diretta è oggettiva, nel senso che non rileva per la sua configurazione l’intento discriminatorio del soggetto agente ma si fa riferimento solo all’effetto pregiudizievole prodotto.
In base a tale definizione, inoltre, il giudizio antidiscriminatorio è neutro, nel senso che tanto le donne quanto gli uomini possono essere discriminati e sono titolari del diritto a non esserlo.
La discriminazione diretta inoltre è assoluta, ovvero non ammette giustificazioni.
Quanto alla discriminazione indiretta (art. 2 D.lgs. 145/2005), essa si configura allorquando “una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri (trattare tutti in modo uguale) può sulla base dei fattori sopra riportati, mettere la persona in una situazione di particolare svantaggio o su due piani diversi a meno che dette disposizioni, criteri o prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari” .
La discriminazione indiretta è oggettiva e neutra, ma a differenza della discriminazione diretta non è assoluta, in quanto le differenze di trattamento rimangono tali e non sono discriminatorie se adeguatamente giustificate dal datore di lavoro.
Spesso sui luoghi di lavoro o di selezione per l’ingresso al lavoro, si assiste a situazioni di discriminazione multipla, quando alla discriminazione per motivi di genere si sovrappongono altri fattori di discriminazione quali, ad esempio, fattori religiosi o inerenti all’età, determinando un effetto maggiormente negativo.
Inoltre, ai sensi degli artt. 2 bis e 2 ter del D. lgs 145/2005 e dell’art. 26 del D. lgs 198/2006 (Codice delle Pari Opportunità) sono considerate discriminazioni anche le molestie e le molestie sessuali.
Siamo in presenza di molestie quando si manifesta “un comportamento non desiderato e determinato dal sesso di una persona, comportamento che ha come oggetto o conseguenza la lesione della dignità di una persona e la creazione di un ambiente intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”.
Circa le molestie sessuali il legislatore annovera “quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”.
Inoltre sono considerati come discriminatori “i trattamenti meno favorevoli subiti da una lavoratrice o un lavoratore per il fatto di aver rifiutato i comportamenti di cui sopra o di esservisi sottomessi”.
Il lavoratore o la lavoratrice vittima di tali situazioni possono tutelare i loro diritti ricorrendo al Tribunale in funzione di Giudice del Lavoro, sia direttamente che delegando la Consigliera/il Consigliere di parità, al fine di ottenere una pronuncia di nullità degli atti, patti o comportamenti discriminatori e il risarcimento del danno.
Inoltre, l’art. 38 del codice delle Pari Opportunità prevede una procedura d’urgenza attivabile dal lavoratore / dalla lavoratrice o, per sua delega, dalle organizzazioni sindacali, associazioni e organizzazioni rappresentative del diritto o dell’interesse leso, o dei Consiglieri di parità provinciali o regionali territorialmente competenti. Il Giudice del Lavoro del luogo ove è avvenuto il comportamento denunziato, nei due giorni successivi, convocate le parti ed assunte sommarie informazioni, qualora ritenga sussistente la violazione denunciata, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, oltre a provvedere al risarcimento del danno, ordina la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti.
In merito all’onere della prova, l’art. 40 D.lgs. n. 198/2006 prevede che il lavoratore/la lavoratrice ricorrente può fornire elementi di fatto – desunti anche da dati statistici relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione di carriera ed ai licenziamenti – idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso. Spetterà al convenuto l’onere della prova sull’insussistenza della discriminazione.
L’ordinamento negli ultimi anni ha dunque fornito apprezzabili strumenti di tutela contro le discriminazioni in ambito lavorativo. Tuttavia, l’affermazione piena del principio di uguaglianza di genere richiede una vera e propria rivoluzione culturale.
Avv. Anna Luppino