“Avvocato, è una questione di principio!”.
Questa è la litania che molto spesso siamo costretti ad ascoltare nel corso del primo colloquio informativo con il Cliente.
Si tratta di una premessa quasi d’ufficio pronunciata, a volte con la consapevole volontà di svilire a priori il nostro lavoro, a volte solo per ridurre i confini della controversia ad una questione bagattellare e priva di rilievo giuridico.
Il cliente in questione, certamente persona fisica, irrompe nello studio del Professionista invocando, più che la tutela verso un diritto violato, il privilegio dell’ultima parola da imporre nella controversia occorsa.
Per quanto mi riguarda, il solo prologo costituisce motivo per congedare l’ospite, pagante o meno, con il perentorio invito di rivolgersi ad altro e più paziente Collega. Tuttavia, il rispetto delle norme del Codice Deontologico impone migliore cautela nella gestione dello scomodo interlocutore.
Soccorre in questo senso, l’art. 9 – rubricato – Doveri di probità, dignità, decoro e indipendenza: “1. L’avvocato deve esercitare l’attività professionale con indipendenza, lealtà, correttezza, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza, tenendo conto del rilievo costituzionale e sociale della difesa, rispettando i principi della corretta e leale concorrenza”.
La norma, in particolare il richiamo al concetto di probità (valore caduto in desuetudine – ma questa è altra faccenda) pone l’Avvocato nella condizione di dover ascoltare l’interlocutore e, facendo ricorso alle migliori doti della maieutica, comprendere e valutare la meritevolezza delle questioni giuridiche sottese a quella che il nostro simpatico collocutore definisce “questione di principio”.
Ma cosa accade allorquando rileviamo che la questione sottoposta alla Nostra attenzione risulta difficilmente sostenibile innanzi al Giudice?
Qui, i corni del dilemma (cosiddetto dilemma cornuto) si estrinsecano nelle due ipotesi opposte, la prima, ovvero esporre tutte le motivazioni dirette a non dare seguito all’azione (carenza dell’interesse ad agire rispetto ad un interesse scarsamente meritevole di tutela, giurisprudenza consolidata in senso negativo etc. etc.) nella – vana – speranza di dissuadere dal bellicoso proposito, la seconda, accompagnare il Cliente alla porta rifiutando l’incarico.
In verità, da una attenta lettura del codice civile, delle norme deontologiche e della giurisprudenza della S.C. sussiste una terza via.
Aiuta, in argomento, Il codice deontologico, ed in particolare i precetti contenuti negli articoli da 10 a 12. “L’avvocato deve adempiere fedelmente il mandato ricevuto, svolgendo la propria attività a tutela dell’interesse della parte assistita e nel rispetto del rilievo costituzionale e sociale della difesa” (Art. 10 rubricato – Dovere di fedeltà). “L’avvocato è libero di accettare l’incarico. Il rapporto con il cliente e con la parte assistita è fondato sulla fiducia” (Art. 11 – Rapporto di fiducia e accettazione dell’incarico). “L’avvocato deve svolgere la propria attività con coscienza e diligenza, assicurando la qualità della prestazione professionale” (Art. 12 – Dovere di diligenza).
I richiamati principi che, per quanto qui d’interesse, esaminiamo partendo da quello consacrato nell’art. 11, chiariscono che il Difensore – salvo eccezioni qui irrilevanti – è assolutamente libero di accettare l’incarico, ma ove decida di assumere la difesa della parte, sarà tenuto al rispetto degli obblighi disciplinari innanzi richiamati, garantendo sempre e comunque un patrocinio fedele, qualificato e rispettoso “… del rilievo costituzionale e sociale della difesa” intendendosi, in una sorta di norma di salvaguardia, l’invito a non accettare incarichi che per la loro natura possano in qualsivoglia maniera rappresentare un vulnus ai principi costituzionali posti a tutela e garanzia del diritto alla difesa.
Sicché, una volta assunto l’incarico, magari cristallizzato in un pomposo e ridondante contratto di patrocinio redatto su carta filigranata con logo dello studio impresso a fuoco, interviene il codice civile, che agli art. 1176, comma secondo “… Nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata…”, e 2236 “… Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave”.
La lettura delle richiamate norme, nella situazione oggetto della presente analisi, restituisce un obbligo di diligenza qualificata che impone al Professionista (il principio è facilmente applicabile verso tutte le professioni liberali) anche il dovere di informazione (circa la difficile sostenibilità della domanda) e dissuasione del Cliente dal perseguimento della stessa. Sicché l’Avvocato, alla luce delle norme disciplinari e di quelle del codice civile, sarà tenuto a rappresentare al proprio Cliente le questioni di fatto e di diritto, anche sopravvenute a seguito della difesa di controparte, ostative al conseguimento del risultato richiesto, o di quelle foriere al rigetto della domanda (con tutte le conseguenze in ordine di condanna alle spese).
Trattasi di obbligo cogente che non può certamente trovare applicazione attraverso formule di stile confezionate nel contratto di patrocinio, posto che la giurisprudenza della Suprema Corte ha chiarito consistere in un quid pluris diretto ad una informativa completa e, soprattutto chiara e comprensibile, che restituisca al Cliente una prospettazione idonea a chiarire, oltre ogni ragionevole dubbio l’opportunità, di non avviare o coltivare il giudizio.
Solo una informativa puntuale, chiara ed esaustiva porrà il difensore in una condizione di serenità rispetto ad eventuali responsabilità che il riottoso Cliente azionerà allorquando la questione di principio invocata si rivelerà essere un costoso capriccio.
Michele Rubino