La crisi del comparto giustizia in Italia viene annoverata tra le cause principali della carenza di investimenti esteri e di solito le responsabilità vengono versate, a cascata, sul sistema giudiziario e dunque, infine, sugli avvocati che tenderebbero ad incrementare il contenzioso e a favorirne una durata spropositata.
Sulla questione poco però si disquisisce intorno alla capacità esplicativa del nostro Parlamento messo sotto pressione, oggi più che mai, dalla smania riformista. Ed infatti, le campagne elettorali dei pretendenti al seggio, si basano proprio sulle riforme che, quando promulgate, si sovrappongono a materie già riformate.
La struttura legislativa è simile ad un palazzo le cui fondamenta non resistono più al peso delle numerose sopraelevazioni ed al taglio di qualche pilastro o muro portante.
L’instabilità legislativa comporta confusione e mostra una inaffidabilità dell’intero sistema statuale sia all’investitore straniero ma anche, e soprattutto, al cittadino che con questo è chiamato a convivere se non a sopravvivere. E se tanto accade relativamente alla normativa civile, amministrativa (non ne parliamo!), ecc. non fa eccezione l’ambito penale la cui incertezza del diritto ha ricadute molto più gravi che non in altri campi.
Di tanto si è resa conto la Corte Costituzionale già nel 1988 quando, con la sentenza n. 364 ha scalfito la graniticità dell’articolo 5 del codice penale che di fatto parafrasa il brocardo latino Ignorantia legis non excusat con «Nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale».
Di fatto la Corte Costituzionale con la citata sentenza ammette che ci possa essere una «ignoranza inevitabile» della legge penale che potrebbe portare ad una inimputabilità. Tanto ovviamente in linea astratta e generica.
Questo in ordine all’ignoranza, ma cosa dire se fosse proprio il Legislatore a confondere e fuorviare il cittadino con norme confusionarie che, queste sì, aumentano le interpretazioni e quindi il contenzioso? Cosa dire poi per quelle leggi, più volte in parte censurate dalla Corte Costituzionale e mai rielaborate o riformulate dal Legislatore? Un esempio a tal proposito potrebbe essere il Testo Unico (DPR 309/90) sulle sostanze stupefacenti, oggetto di infiniti rimaneggiamenti. La lettera dell’art. 73, restando nell’esempio, per essere compresa nella sua portata necessita di un approfondimento giurisprudenziale ed in particolare di una attenta lettura della sentenza n. 32/2014 della Corte Costituzionale che reintroduce la distinzione tra «droghe pesanti» e «droghe leggere» e dunque l’uso delle quattro tabelle nelle quali sono contemplate le sostanze, I e III sanzioni maggiori, II e IV sanzioni minori.
Orbene, a distanza di cinque anni dalla promulgazione della detta sentenza, la lettera della norma è ancora insufficiente di per sé ad indicare al semplice cittadino quale sia la gravità della condotta censurata penalmente e quali siano le relative sanzioni.
In altri termini il Legislatore, ovvero il Parlamento, ovvero i mille deputati e senatori, latita nei suoi compiti istituzionali, primo dei quali è affermare la certezza del diritto con norme chiare e semplici per la cui comprensione non sia necessario ricorrere alla consultazione della giurisprudenza.
Dunque, piscis primum a capite foetet.
Paolo Scagliarini