Il Codice Rosso e le sue criticità

Abbiamo parlato, in altra parte di questo giornale, del Codice Rosso ed abbiamo preso contezza delle novità da questo apportate.

Nel merito, dobbiamo evidenziare che il Codice rosso ha apportato alcune modifiche anche al codice di procedura penale (art. 90 ter, comma 1 bis, c.p.p mod. dalla legge n. 69 del 19 luglio 2019); in particolare, è stato introdotto l’obbligo di comunicazione immediata alla persona offesa e al suo difensore, se nominato (nei casi in cui si proceda per i reati previsti dagli articoli 572, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies e 612-bis c.p., nonché dagli articoli 582 e 583-quinquies del codice penale nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, c.p.) di ricevere immediatamente tutte le  comunicazioni relative alla evasione dell’imputato in stato di custodia cautelare o del condannato, oltre che dei provvedimenti di scarcerazione e di cessazione della misura di sicurezza detentiva; parimenti, i provvedimenti cautelari dell’allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento alla persona offesa devono essere comunicati, oltre che alla medesima persona offesa, anche al suo difensore, ove nominato (art. 282-quater, comma 1, mod. dalla legge n. 69 del 19 luglio 2019, c.d. codice rosso). Stesso discorso vale per i provvedimenti di revoca e di  sostituzione delle misure emessi dal giudice – d’ufficio o su richiesta di parte – i quali devono essere comunicati immediatamente, a cura della polizia giudiziaria, ai servizi socio-assistenziali, alla persona offesa e al suo difensore, ove nominato.

Altresì, è stata modificata  la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, nella finalità di consentire al giudice di garantirne il rispetto anche per il tramite di procedure di controllo attraverso mezzi elettronici o ulteriori strumenti tecnici, come l’ormai tanto villipeso braccialetto elettronico. Il delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi viene ricompreso tra quelli che permettono l’applicazione di misure di prevenzione.
La Legge n. 69/2019, fortemente voluta dalle Associazioni che si occupano di vittime di violenza e minori, presenta, tuttavia delle lacune, specie dal punto di vista pratico. La velocizzazione dei processi, infatti, sebbene in sostanza appare un ottimo sostegno alle vittime di violenza, nella pratica appare di difficile applicazione. Il codice di procedura penale impone l’obbligo di dare la priorità ai casi di reati di genere nella formazione dei ruoli di udienza e nella trattazione dei processi, ma a fare la differenza nella tutela della donna a rischio non è il processo che arriverà a suo tempo, ma sono – nell’immediato – i provvedimenti concreti presi dal giudice: oltre a quelli ‘tradizionali’, l’allontanamento della persona pericolosa dalla casa familiare o il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa. Non sempre, però, la celerità produce buoni risultati investigativi e decisioni fondate, basti riflettere sulle molte decine di segnalazioni non distinte nel loro contesto e non filtrate nella loro gravità, in seguito alle quali, però, la legge obbliga la polizia giudiziaria a «riferire immediatamente al pubblico ministero anche in forma orale», e il Pm a trattare, assumendo «entro 3 giorni» informazioni dalla persona offesa o da chi ha denunciato i fatti”. La nuova norma prevede che tale termine, concesso per ascoltare il racconto della vittima, possa essere derogato se ci sono imprescindibili esigenze di tutela della riservatezza delle indagini, anche nell’interesse della persona offesa. Bisogna ricordare che è necessario cercare e trovare riscontri alle parole della vittima; infatti, per  evitare di cadere nel tranello di denunce infondate e calunniose, la credibilità della persona offesa va verificata e confermata, alle volte anche con indagini tecniche molto lunghe.
La previsione dell’obbligo imposto al Pm di sentire entro tre giorni chi denuncia, rischia di trasformare le Procure in una sorta di pronto soccorso nel quale però è attribuito a tutti un eguale bollino rosso e a tutti una indistinta precedenza che, a personale invariato e nella carenza di adeguata formazione, non consente di selezionare i casi di assoluta urgenza meritevoli di trattazione prioritaria e rischia di tradursi in un mero adempimento burocratico che manda in tilt le procure, anche le più attrezzate, col rischio che, in questa “marea” di denunce, alcuni casi continuino a sfuggire all’attenzione della magistratura e possano risultare fatali per molte donne.
Se affrontiamo il problema dal punto di vista delle donne, accelerare i tempi, così come previsto dal Codice Rosso, non è sempre un bene e non è sempre giusto. Ci sono i pro e i contro. Al centro dell’attenzione bisognerebbe sempre mettere la donna e non la volontà punitiva dello Stato. Una donna che esce o decide di uscire da una situazione di violenza  deve avere il tempo di valutare tante cose, metabolizzare quando possibile la violenza subita, rimettersi in sesto, ripensare alle esperienze vissute. Il magistrato dovrebbe sentire una persona offesa solo se è necessario e quando è pronta, che siano passati tre, quattro, dieci o venti giorni dalla ricezione della denuncia. Si convoca immediatamente una donna abusata, e poi? Parliamo anche del dopo. E del prima. Le donne  spesso non denunciano perché hanno il timore di non essere credute. L’audizione in tempi stretti poi, le costringerebbe a ripetere storie dolorose e pesanti già dettagliate in una denuncia. Se c’è l’assistenza di un legale o di una associazione e se poliziotti e carabinieri sono preparati, il racconto iniziale può essere più che sufficiente, con tutti gli elementi utili per le indagini. Il ‘codice rosso’ è certamente “utile” ed importante nella sostanza, ma il problema è come gestirlo limitando il rischio di non riuscire ad estrapolare i casi più gravi dalla marea di denunce, anche perché tutti i casi per legge devono essere trattati “con urgenza”.
La parte più critica del Codice Rosso riguarda proprio l’obbligo per le Procure di ascoltare le donne entro i tre giorni. In primo luogo, non è stata eliminata la possibilità di delega alla polizia giudiziaria e, a causa della carenza di organico nelle procure, le donne saranno sentite da carabinieri e polizia. Non si fa alcuna differenza sulla gravità dei reati per l’ascolto delle donne e soprattutto non ci si cura che le donne siano state già messe in protezione al momento della convocazione. Si contatteranno le donne a casa, con accanto il carnefice per dirgli che stanno andando in caserma a ripetere quanto già riferito in querela?
La donna, ancora sotto shock, è confusa, si sente in colpa, dice a se stessa che è stato solo un episodio e non succederà più. È così che accade nella maggior parte dei casi: la violenza domestica è subdola, è legata a doppio filo con la manipolazione. Se questa donna, ascoltata dal Pubblico Ministero, decide di minimizzare l’accaduto e il suo comportamento non viene interpretato correttamente o comunque non viene esaminato sulla base di un periodo di osservazione più lungo, la denuncia rischia di risolversi in un nulla di fatto, in grado di compromettere la credibilità della vittima, anche se sta correndo un pericolo reale.
A tale lacuna, va aggiunta la carenza drammatica negli organici della Procura, ossia l’assenza di cancellieri e personale amministrativo che crea diversi problemi di gestione, perché i Pm hanno 3 giorni per sentire la presunta vittima di violenze e iscrivere il fascicolo.

Le norme in vigore che disciplinano il reato di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, vengono rafforzate e punite con la reclusione da sei mesi a tre anni per chiunque violi gli obblighi o i divieti previsti dall’autorità giudiziaria.Un punto invece rimasto sinora in ombra è quello che sta emergendo nei casi in cui inizia a essere applicato il nuovo articolo 387 bis che punisce, con la pena da 6 mesi a 3 anni, «chiunque violi dei provvedimenti (ai quali sia stato sottoposto dal giudice) di allontanamento dalla casa familiare e il divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa». L’introduzione di un nuovo e autonomo reato (art. 387 bis) ha risolto il problema solo a parole: il legislatore ha infatti scelto di fissare la pena da un minimo di 6 mesi a un massimo di 3 anni, il che impedisce di arrestare subito in flagranza chi stia avvicinandosi di nuovo (in violazione del precedente ordine giudiziario di allontanamento o divieto di avvicinamento) alla donna in pericolo. Il risultato finale concreto è che, mentre chi evada dagli arresti domiciliari, o chi rientri illegalmente in Italia dopo essere stato espulso, può essere arrestato in flagranza di reato, questo non è possibile se un indagato viola l’ordine del giudice di allontanarsi o non avvicinarsi alla vittima: al Pm non resta che l’ordinaria strada del chiedere al Gip l’aggravamento della misura cautelare violata e cioè l’arresto. Ma questo presuppone una trafila burocratica (comunicazione scritta di notizia di reato dalla polizia al pm di turno, ricezione, iscrizione, trasmissione dal Pm di turno al Pm titolare del fascicolo nel quale era stata disposta la misura violata, valutazione del Pm, richiesta di arresto formulata dal Pm, trasmissione al Gip, valutazione, emissione della misura, trasmissione alle forze dell’ordine affinché la mettano in atto, esecuzione dell’arresto) che nella concreta quotidianità degli uffici giudiziari comporta per forza almeno alcuni giorni di tempo, potenzialmente incompatibili con la dinamica degli eventi. Pertanto, nella nuova legge battezzata «codice rosso», che pur condivisibilmente introduce una autonoma fattispecie di reato per questo tipo di violazione, c’è una lacuna che ne svuota l’efficacia pratica: perché rende impossibile arrestare in flagranza di (nuovo) reato chi venga sorpreso mentre, in violazione del precedente ordine del giudice, sta avvicinandosi di nuovo alla donna maltrattata o stalkizzata.

Maria Antonietta Rita Labianca 

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