La difesa congiunta: responsabilità civile ed obblighi deontologici

Il 26 settembre scorso, presso la sala Biblioteca del Tribunale Civile di Bari, al cospetto di una platea gremita di colleghi, l’associazione Futuro@Forense, nel riprendere le attività dopo la pausa estiva,  ha affrontato, grazie anche all’elevato tasso tecnico dei relatori del giorno, Avv. N. Scognamillo del CDD dell’Ordine di Bari e all’avv. M. Rubino componente del Direttivo, un tema vivo e di particolare interesse: la codifesa analizzata nell’ambito dell’ illecito disciplinare nonchè della responsabilità civilistica.

Sotto il profilo deontologico in tema di “difesa congiunta” occorre, innanzitutto, fare riferimento ad alcuni “principi generali” che ritroviamo nel Titolo I del Codice Deontologico Forense e, segnatamente, nelle norme che elencano i doveri alla cui osservanza sono tenuti gli avvocati.

Rileva, in particolare, l’art. 19 C.D.F., in forza del quale l’avvocato deve sempre mantenere nei confronti del collega un comportamento ispirato a lealtà e correttezza, valori questi essenziali nell’esercizio dell’attività professionale e soprattutto nel processo, che non deve mai trasformarsi in una rissa ad oltranza all’insegna della inimicizia.

Sottolineato che, a seguito della recente riforma dell’art. 20 C.D.F., la violazione dei doveri di cui al Titolo I costituisce di per sé illecito disciplinare, altro dovere pure richiamabile in tema di “difesa congiunta” è il dovere di colleganza sancito dall’art. 38 C.D.F., proponendosi come una modalità di comportamento finalizzata a rendere più agevoli i rapporti processuali.

Ma, a parte i richiamati principi di ordine generale, della “difesa congiunta” si occupa specificatamente l’art. 46 C.D.F., collocato nel titolo IV.

E’ inserita nel titolo IV laddove vengono regolati i doveri che l’avvocato deve assumere nel processo e la condotta a cui Egli deve ispirarsi, contemperando una sorta di bilanciamento tra il dovere di difesa e il rapporto di colleganza che, come recita la stessa norma al comma 1, deve essere salvaguardato per quanto possibile.

Non è infrequente che la parte conferisca mandato a più difensori, tale evenienza nell’ambito penale è prevista per un numero non superiore a due ai sensi dell’art. 96 comma I cpp e valevole per l’imputato, con eccezione per il responsabile civile, obbligato civilmente e parte civile che possono disporrne solo uno; differentemente nell’ambito civile non v’è limitatazione del numero dei codifensori in quanto nulla è previsto dal codice nè dalla legislazione speciale.

L’art. 46 al comma 6° prevede l’obbligo dell’avvocato di consultare il codifensore in ordine a tutte le scelte processuali da compiersi e di informarlo del contenuto dei colloqui con l’assistito in comune al fine di una effettiva condivisione della difesa.

Una breve riflessione mi induce, prima facie, a credere che tale ultimo disposto sembra,  non collimare con l’orientamento ormai consolidatosi in giurisprudenza secondo cui il mandato alle liti conferito a più difensori si presume, in difetto di espressa e inequivoca volontà di senso contrario, disgiunto, di modo che ciascun difensore abbia pieni poteri di rappresentanza processuale. Sul punto recente Cassazione n.10635/2017 conferma “il principio per cui il mandato alle liti conferito a una pluralità di difensori si presume disgiunto“. Infatti, a prescindere dalla attività che concretamente ciascun codifensore svolge, l’elemento importante è che tutti i codifensori nominati abbiano parità nel potere di difesa. Tuttavia, anche un’attuazione paritaria tra i codifensori è un’ipotesi rara, infatti nella prassi accade che uno tra i difensori rivesta il ruolo di dominus, ruolo che in ogni caso è irrilevante sia sotto il profilo dell’obbligo dell’informativa, sia in ordine al pagamento del compenso, rispetto ai quali tutti i codifensori hanno diritto. Sul punto una recentissima Cassazione n. 19255/2018 dispone che: “nel caso in cui più avvocati siano incaricati della difesa in un procedimento civile, ciascuno di essi ha diritto all’onorario nei confronti del cliente in base all’opera effettivamente prestata, rimanendo escluso il diritto all’intero onorario solo se risulta implicitamente e inequivocabilmente una reciproca sostituzione nelle singole prestazioni poi sommate nella specifica”. Nè influisce su tale diritto il rapporto titolare-collaboratore interno allo studio professionale (cfr. parere C.N.F. Del 19.02.2012, richiesto dall’Ordine degli Avvocati di Forlì).

La violazione dei doveri di cui al sesto comma dell’art. 46 C.D.F. è punita con la sanzione dell’avvertimento, fatti salvi gli eventuali aggravamenti e le eventuali attenuazioni di detta sanzione ex art. 22 dello stesso Codice. E’, tuttavia, sempre bene ribadire che in linea di principio, in nessun caso la decisione di istituire una collaborazione congiunta può essere imposta. L’autonomia dell’avvocato è, infatti, sempre massima e tale deve rimanere, per il che giammai potrà integrare un qualsivoglia illecito disciplinare il rifiuto di collaborare con un collega per la difesa di un comune cliente.

La difesa congiunta ci dà la stura per introdurre e argomentare in ordine alla responsabilità civile dell’avvocato non rilevando distinzioni in caso codifensori o più difensori.

Breve premessa: dal 1970 ad oggi lo scenario che vedeva coinvolto l’avvocato in una causa promossa dal suo stesso cliente e riguardante la responsabilità professionale, è notevolmente cambiato. Per cui se prima degli anni ’70, l’idea di dover fare causa al proprio difensore a cagione della sua responsabilità durante l’espletamento del mandato era un’idea pressocchè inesistente, successivamente, la liberalizzazione delle professioni, l’abolizione delle tariffe 2006, il Codice del Consumo, la possibilità di redigere contratti con i committenti-clienti, l’obbligatorietà della polizza professionale e quant’altro, hanno contribuito a modificare lo scenario su cui si muove il professionista-avvocato.

Sul punto rileva l’orientamento della Suprema Corte che, in un’ottica di progressivo declino di immunità del professionista e mitigando il rigore del filone precedente, si è pronunciata a favore di una ricostruzione ipotetica della vicenda processuale, al fine di valutare l’effettiva sussistenza di un nesso eziologico tra la negligente condotta del professionista e il danno patito dal cliente, con conseguente obbligo per il primo di risarcire il danno cagionato a tale soggetto, ove ne sussistano i presupposti. È stata riconosciuta la responsabilità di un avvocato che, pur essendo stato sostituito prima dell’udienza di precisazione delle conclusioni in appello, fino a quel momento non aveva chiesto l’ammissione di mezzi di prova ritenuti essenziali ai fini dell’accoglimento della domanda della parte da lui assistita. La S.C. ha ritenuto che il negligente comportamento del primo difensore abbia concorso a determinare la soccombenza del cliente, non rilevando, a tal fine, la sopravvenuta sostituzione dello stesso con un altro difensore.

La stessa giurisprudenza di merito, seguendo questo filone giurisprudenziale, è giunta a sostituire il criterio della ragionevole certezza a quello, precedente, dell’assoluta certezza o della certezza morale, di impossibile applicazione, in quanto comportante una c.d. probatio diabolica per il creditore della prestazione (T. Roma, 11.10.1995; nonché T. Roma, 27.11.1992, in cui il giudice adito ha fondato il giudizio di responsabilità del professionista, per il danno patito dal cliente, espropriato del proprio diritto su di un bene immobile, sulla ragionevole certezza che, in assenza del negligente comportamento del primo, lo stesso, ove tempestivamente avvisato o ripristinato nei suoi diritti di esecutando, avrebbe potuto liberare l’immobile di sua proprietà. Di qui, appunto, la valutazione di responsabilità professionale per il danno patito dal cliente.

La stessa C. civ., Sez. VI, Ord., 28.2.2014, n. 4790, ribadendo che l’obbligazione dell’avvocato è un’obbligazione di mezzi e non di risultato afferma che il professionista è tenuto a operare con diligenza e perizia adeguate alla contingenza, così da assicurare che la scelta professionale cada sulla soluzione che meglio tuteli il cliente.

Pertanto, l’avvocato, qualora una soluzione giuridica, pure opinabile ed eventualmente non condivisa e convintamente ritenuta ingiusta ed errata dallo stesso, sia stata tuttavia riaffermata dalle Sezioni Unite della Corte regolatrice del caso, non è esentato dal tenerne conto per porre in essere una linea difensiva volta a scongiurare le conseguenze, sfavorevoli per il proprio assistito, alla prevedibile applicazione dell’orientamento ermeneutico da cui pur dissente.

Maria Bruscella

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