Web: libertà, tutela e controllo

Internet ha cambiato profondamente la natura, le relazioni affettive e le modalità di espressione dei nostri punti di vista e delle emozioni. Sull’adulto attuale, che ha mutuato il vecchio sistema di relazioni, facendo del mondo web un’occasione per evolversi ulteriormente e fare anche di necessità virtù nel campo relazionale ma anche economico, il web ha effetti sostanzialmente controllabili. A differenza dell’adulto, i ragazzi, nati in un sistema già abbondantemente rodato, hanno assorbito il linguaggio e le innumerevoli opportunità, cogliendo in ogni suo strumento una sfida e un’occasione di autoesaltazione. Non a caso l’odierna generazione è stata definita generazione Hashtag, con questo richiamando il famoso metodo dei social che ha il precipuo scopo di divulgare in modo esponenziale l’immagine dell’utente e del suo punto di vista. Del complesso fenomeno del web e della sua incidenza, in particolare sui minori, si è parlato anche presso il Tribunale a Bari, nel corso di un evento formativo tenutosi il 23 ottobre scorso, organizzato da Futuro@Forense, che ha visto la collaborazione qualificata della collega Maria Antonietta Rita Labianca, del giornalista Antonio Procacci e della sottoscritta, durante il quale è stata approfondita la tematica sul piano civilistico e penalistico non mancando un utile, necessario approfondimento sulle tecniche di investigazione sottese alle conseguenze psicologiche sui minori abusati.

Il dating online, ossia la cultura e la esibizione ossessiva della propria immagine, per i ragazzi, è sempre più palpabile. La Rete e le nuove tecnologie stanno portando a conseguenze inaspettate. La violenza online ne è la conseguenza maggiormente riscontrabile e comprende un ampio scenario di situazioni: l’hate speech (incitamento all’odio), istigazione a commettere atti autolesivi/suicidio, passando all’area riguardante la sessualità: grooming (adescamento di un minore in Internet tramite tecniche di manipolazione psicologica volte a superarne le resistenze e a ottenerne la fiducia per abusarne sessualmente); sextortion e revenge porn (o ricatto sessuale, minacciare di rendere pubbliche le informazioni private di una vittima a meno che questa non paghi dei soldi all’estorsore), accesso a contenuti pornografici, pedopornografia vera e propria; giungendo all’effetto più tristemente noto come il Cyberbullismo, ossia il vero e proprio bullismo in rete.

La Legge 29 maggio 2017, n. 71 in materia diDisposizioni a tutela dei minori per la prevenzione ed il contrasto del fenomeno del cyberbullismo, infatti, nel 2° comma dell’art. 1 si legge testualmente: “Ai fini della presente legge, per «cyberbullismo» si intende qualunque forma di pressione, aggressione, molestia, ricatto, ingiuria, denigrazione, diffamazione, furto d’identità, alterazione, acquisizione illecita, manipolazione, trattamento illecito di dati personali in danno di minorenni, realizzata per via telematica, nonché la diffusione di contenuti on line aventi ad oggetto anche uno o più componenti della famiglia del minore il cui scopo intenzionale e predominante sia quello di isolare un minore o un gruppo di minori ponendo in atto un serio abuso, un attacco dannoso, o la loro messa in ridicolo”.
La suddetta Legge appresta uno strumento a tutela del minore, stabilendo che “ciascuno ragazzo, superiore ai 14 anni, o chi ne ha la responsabilità, possa richiedere al titolare del trattamento dei dati o al gestore del sito Internet di oscurare, bloccare o rimuovere un contenuto caratterizzato dalla fattispecie innanzi delineata all’art. 1. Il gestore ha 48 ore per mettere in atto quanto richiesto. Laddove non sia possibile rivolgersi al gestore, si può segnalare il contenuto direttamente al Garante per la protezione dei dati personali”.
Sul web il concetto di violenza, largamente intesa, è oramai sdoganato in modo impressionante, non solo tra adolescenti, ma oggigiorno, anche i ragazzini di 10/11 anni tendono a raggiungere immagini che una volta erano più che proibite.
La responsabilità dell’operato dei minori sul web ricade indubbiamente sui genitori, sui quali incombe il compito tradizionalmente volto ad impartire l’educazione adeguata, che tenga in debita considerazione quelli che sono i rischi della influenza e della relativa sovrapposizione della metodica del web sulla educazione stessa.
Se sul piano penalistico, non è possibile punire il minore infraquattordicenne, sul piano civilistico la responsabilità per il danno che il minore ha arrecato a terzi ricade sui genitori per culpa in educando nonché per culpa in vigilando.
Il principale collegamento tra sanzione penale ed il risarcimento civile si evince dal combinato disposto degli artt. 2043 c.c. sul risarcimento per fatto illecito (qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno) e l’art. 2046 Codice Civile sulla imputabilità del fatto dannoso, per cui non risponde delle conseguenze del fatto dannoso chi non aveva la capacità d’intendere o di volere al momento in cui lo ha commesso, a meno che lo stato d’incapacità derivi da sua colpa.
La valutazione compiuta dal giudice civile, caso per caso, è atta ad accertare l’effettiva capacità delittuale del minore, con la possibilità di attribuire anche a quest’ultimo, sebbene incapace di agire, una responsabilità civile per gli atti compiuti, della quale inevitabilmente, dal punto di vista patrimoniale, risponderanno i genitori. Il danneggiato dal comportamento del minore sul web, può agire in sede civile per richiedere il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale patito in conseguenza dell’odiosa condotta. Ma occorre che si consideri il genitore quale responsabile per l’illecito commesso dal figlio minore ai sensi dell’art. 2048 c.c. per cui la responsabilità, ciò non di meno, può essere dei genitori in concorso con i precettori, in virtù di una «relazione qualificata» che li lega ai figli “a prescindere” dalla connessione del minore con i fatti esterni rispetto all’educazione ricevuta e alla incidenza dei fatti sociali che possono averlo influenzato. La prova liberatoria incomberà sul genitore, il quale sarà chiamato a dimostrare, per andare esente da responsabilità, di aver convenientemente educato il minore e/o di aver vigilato sulla sua condotta in modo tale da prevenire la commissione dell’illecito, non essendo sufficiente per il genitore il provare di non aver potuto materialmente impedire la commissione del fatto.
Incidente appare altresì la responsabilità dei precettori scolastici. Emblematica a questo proposito sembrerebbe una sentenza del Tribunale di Milano del 5 maggio 2016, n. 5654, secondo la quale “nei casi di bullismo durante l’orario scolastico, l’istituto, per escludere la propria responsabilità contrattuale deve dimostrare di aver adempiuto ai propri doveri di educazione e vigilanza alla luce del parametro della diligenza esigibile, che si concretizza, ad esempio, attraverso la supervisione dei ragazzi durante la ricreazione, sul bus (prevedendo la figura del «bus manager») e durante gli spostamenti da una classe all’altra”. È esclusa invece la responsabilità in base all’articolo 2048 del Codice civile nella ipotesi funesta la tragica decisione di una allieva di 13 anni di togliersi la vita in conseguenza del linguaggio volgare e canzonatorio di un compagno di scuola, in ragione della non prevedibilità dell’evento.
Il nostro ordinamento non ha mancato di individuare alcuni tentativi di ricostruzione dei profili di responsabilità dello stesso Internet service provider, ossia del cd. Fornitore dei servizi internet. Tra le difficoltà interpretative dei primi arresti giurisprudenziali. Trattandosi di un intermediario che stabilisce un collegamento tra chi intende comunicare un’informazione e i destinatari della stessa, il provider, se da un lato rappresenta una straordinaria realizzazione del diritto alla libera manifestazione del pensiero, nel contempo aumenta la possibilità di compiere illeciti on line con la conseguente violazione di situazioni giuridiche protette. A questo fine, la questione è stata già regolamentata in ambito europeo. La Direttiva europea sul commercio elettronico 2000/31/CE, recepita in Italia dal D.Lgs n. 70 del 2003, ha privilegiato il ricorso a forme di responsabilità civile rispetto a forme di responsabilità penale e ha attribuito alla sezione IV, rubricata “Responsabilità dei prestatori intermediari” per condotta omissiva volta ad assicurare protezione ai soggetti potenzialmente lesiva di comportamenti illeciti. Talvolta, la responsabilità del provider può configurarsi come concorsuale nell’illecito ovvero come responsabilità dovuta a negligenza conseguente all’omissione di controlli che avrebbero scongiurato il danno.
In un primo momento si è tentato di applicare una responsabilità oggettiva, riconducendone il fondamento all’art. 2050 c.c. (dedicato alla responsabilità per l’esercizio di attività pericolose, tenuto conto della forte pericolosità, e, dunque, probabilità di produrre danno a terzi. Tuttavia, è stato evidenziato da avvertita dottrina l’inidoneità del disposto normativo dell’art. 2050 c.c. a disciplinare la responsabilità del provider in quanto la sua attività non appare obiettivamente ed intrinsecamente fonte di pericolo. In ordine alla commissione di illeciti on line, la prova di aver adottato tutte le misure dirette ad evitare il danno, sarebbe soddisfatta soltanto dalla dimostrazione da parte del provider di aver adottato un sistema di vigilanza che lo stesso art. 17 del D.lgs 2003/70 prevede. Successivamente, è stata teorizzata una responsabilità del prestatore di servizi collegandola alla disciplina dei danni causati da cose in custodia ex art. 2051 c.c. e, infine, ad una responsabilità per culpa in vigilando ex art. 2049 c.c. che si verifica tutte le volte che l’Internet service provider non impedisce l’evento illecito poiché non controlla l’illiceità dei contenuti immessi sul server. Dovrebbe essere rinvenibile nei confronti dell’Internet service provider non solo un obbligo bensì un potere di controllo o la possibilità di mettere in atto misure idonee ad evitare il danno affinché si possano utilizzare nei confronti di tali soggetti questi criteri di imputazione. Sulla responsabilità del provider e sulla sua consapevolezza in merito al fatto dannoso arrecato dai fruitori del servizio, il Tribunale civile di Napoli Nord, in una sentenza del 2016, ha espressamente dichiarato che «pur in assenza di un generale obbligo di sorveglianza deve tuttavia ritenersi sussistente una responsabilità per le informazioni oggetto di memorizzazione durevole o “hosting” laddove il provider sia effettivamente venuto a conoscenza del fatto che l’informazione è illecita (art. 16 c. 1 lett. b D.lgs. n. 70/2003) e non si sia attivato per impedire l’ulteriore diffusione della stessa» . Cosi Trib. Di Napoli Nord con sentenza del 3 novembre 2016 novembre 2016 sulla responsabilità di Facebook per la mancata rimozione di contenuti illeciti.
La responsabilità dell’Internet service provider è stata ricondotta altresì alla violazione dell’art. 40, 2 co. c.p.c. per aver consentito, senza operare un controllo preventivo, che venisse caricato in rete, attraverso le pagine del sito, il video immesso sulla rete a scapito di un minore. In particolare, tre manager di Google furono imputati per non aver impedito il delitto di diffamazione nei confronti del minore e dell’associazione e per aver trattato illecitamente dati personali attinenti alla salute del ragazzo ripreso (art. 167 d. lgs 196/2003, c.d. codice delle privacy). Nel giudizio di primo grado, il Tribunale di Milano assolse gli imputati dal delitto di diffamazione, escludendo che sorgesse in capo all’ host provider un obbligo di impedire reati commessi dagli utenti. Il Giudice di primo grado, ritenne tuttavia sussistente il delitto di illecito trattamento di dati personali e nel 2010 condannò i responsabili di Google Italy e Google Inc, in concorso tra loro, per il reato di cui all’art. 167 d.lgs 30 giugno 2003, n. 196, c.d. Codice della privacy, in quanto, Google sarebbe stata responsabile di violazione della disciplina sulla privacy, perché, nell’ambito di un’attività svolta con finalità lucrativa, non avrebbe avvertito in maniera sufficientemente chiara il minore che ha caricato il video on line sulla necessità di tutelare la privacy del protagonista ( Tribunale di Napoli dell’8 agosto 1996).
Appare evidente come, per la regolamentazione del dilagante fenomeno del web, che in questa sede abbiamo cercato solo sommariamente di descrivere, occorrerà certamente ripartire dal binomio imprescindibile tutela e controllo, quale mezzo necessario e mirato ad evitare il nocumento da connessione.
Barbara De Lorenzis

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