Sin dai primi mesi del 2019 i professionisti italiani, quelli non riuniti in cooperative o società di capitali, hanno visto progressivamente ridursi il proprio reddito.
Le ragioni sono molteplici ma tutte riconducibili ad una continua erosione della capacità di spesa di privati ed aziende, restando assolutamente irrilevante la questione della concorrenza generata dall’ “eccesso di offerta”.
Le motivazioni, almeno per quanto rileva il mondo dell’impresa, possiamo così riassumerle:
- pressione fiscale ormai giunta a livelli insostenibili e tale da rendere l’investimento in delocalizzazione assai più vantaggioso rispetto al mantenere l’attività entro i confini nazionali;
- eccessiva burocratizzazione della macchina amministrativa centrale e locale attraverso una proliferazione di regolamenti, direttive, protocolli, uffici, sezioni o sottosezioni tutti creati al solo fine di scoraggiare anche il più ostinato imprenditore;
- una proliferazione normativa tale da rendere di difficile comprensione e collocazione giuridica finanche la più semplice delle azioni, che in uno ad un sistema giudiziario incapace di offrire risposte in tempi ragionevoli ed adeguati, rende altamente rischioso l’investimento economico nel nostro Paese (qui la chiosa è d’obbligo visto che nell’autunno del 1999 si è consacrato in Costituzione – ex art. 111 – il principio della “ragionevole durata del processo” e poi, ben consci dell’incapacità dello Stato di rispettare detto principio, nel marzo 2001, con la legge 89/2001 meglio nota come legge Pinto, si é normato il procedimento per il conseguimento del ristoro derivante dall’eccessiva durata del processo. Ma non era più facile destinare delle risorse al sistema “giustizia” in modo da renderlo efficiente? Ai posteri non l’ardua sentenza ma il conto da pagare).
Se l’impresa non produce, non immette liquidità con la evidente conseguenza che la capacità di reddito dei lavoratori, qui intesi anche come liberi professionisti si riduce sino ad azzerarsi.
Sin qui la scoperta dell’acqua calda, il trionfo dell’ovvio ma di quello sgradevole e per certi aspetti impopolare.
Finalmente nel gennaio di quest’anno, per fortuna o per sfortuna, a seconda della prospettiva dalla quale si legga l’evento, è arrivata la prima pandemia del nuovo millennio a caricare sulle proprie torve spalle il peso e la responsabilità di un tracollo economico e finanziario dalle dimensioni impressionanti.
Nelle scorse settimane gli italici professionisti, malamente organizzati, guidati dall’Ettore Fieramosca di turno sono insorti, radunandosi non nelle piazze montando barricate, o sfidando a singolar tenzone il cattivo di turno, ma nella più comoda e discreta vetrina di Facebook invocando provvidenze e prebende di ogni sorta.
La rete ha prodotto le soluzioni più fantasiose di volta in volta ricevendo il plauso di avvocati, geometri, consulenti del lavoro, attuari e commercialisti.
Il fervore giustizialista e democratico, tuttavia si scontra nella tarda serata del 17 marzo scorso, allorquando il Governo, presa carta, penna e calamaio, dopo la notturna diretta facebook del divino Conte, affida alla Gazzetta Ufficiale dell’italico regno il decreto legge n. 18 ignobilmente definito “Cura Italia”.
Con grande sorpresa degli innumerevoli sanculotti moderni, il citato decreto nulla dispone in favore dei Professionisti ed in particolare di quelli figli di una Dea minore (per gli altri, figli di mamma Inps, è altra storia).
Mal di pancia, dissenteria, crisi di panico, atti d’isteria collettiva, questue e suppliche, sicché al grido “Ape dammi il miele” il popolo delle partite iva assalta le Casse Private, gli Ordini e finanche le tasche dei parenti prossimi, ciò in un ritrovato quanto antico principio di redistribuzione della ricchezza dove uno lavora e dieci mangiano.
Pronta la risposta del Generale Luciano a presidio del forziere “Cassa Forense” giunta quasi come un proclama in tempo di guerra al suon dell’italico inno: “Stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte l’Italia chiamò”.
Preso atto che la coorte invocata dal Generale Luciano non è quella presente nei palazzi nobiliari, bensì quella di antica memoria, ovvero unità ridotta di soldati, la situazione si fa davvero complessa.
In questo contesto di guerra tra poveri c’è poi chi rilascia interviste al giornale di turno manifestando il proprio dolore per il totale disinteresse dello Stato nei confronti dei propri figli, incappando nel peggiore populismo (ma questa è altra storia).
Sin qui la cronaca, ma dove sono le idee per uscire dal guado (che giusto per chiarezza non è pieno di fango ma di materiale di umana natura)?
- Si potrebbe pensare all’eliminazione o riduzione dell’iva per i prossimi dodici mesi, una simile operazione determinerebbe un incremento del potere di acquisto non inferiore al 15%;
- si potrebbe ipotizzare una tassa piatta che inglobi ogni sorta di tassa nazionale e locale con aliquota fissa;
- si potrebbe valutare l’ipotesi di un condono tombale al pari di quello del 2002 con aliquote massime del 10/15% in modo da far tornare in bonis milioni di soggetti facendo cassa;
- si potrebbero istituire zone franche ove riconoscere una fiscalità di vantaggio;
- ed in ultimo, si potrebbe immette liquidità al fine di favorire l’attività di impresa, nelle diverse forme, con l’unico limite e vincolo di non utilizzare il denaro per il pagamento di debiti pregressi.
Ma noi siamo italiani ed abbiamo perso quello spirito che consentì la rinascita del paese a partire dagli anni ’40 sino al boom economico, sicché come cantava Iannacci “si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale per vedere come stanno le bestie feroci e gridare aiuto, aiuto, è scappato il leone e vedere di nascosto l’effetto che fa”.
In conclusione, affido alla comune sensibilità il pensiero dell’ultimo imperatore di Etiopia Hailé Selassié, uomo di grande cultura e carisma, il quale soleva così affermare: “Non è giusto aspettarsi di veder cadere l’aiuto dall’alto, come un regalo: bisogna meritar la ricchezza!”
Michele Rubino