L’avvocatura ieri, oggi, domani

La notizia che 120.000 Colleghi Avvocati, quasi la metà dei 245.000 iscritti all’albo, abbiano sommerso il sito di Cassa Forense con le proprie richieste di reddito di ultima istanza (erogato dallo Stato per il tramite della Cassa, che è demandata all’istruzione delle istanze ed all’anticipazione delle somme) ha sorpreso soltanto chi non è addetto ai lavori e non si occupa un minimo di politica forense.

Basta leggere i dati annualmente aggiornati da Cassa Forense sui redditi degli Avvocati, per rendersi conto che la platea degli aventi diritto potenzialmente al sussidio, era addirittura superiore alle 120.000 unità, considerando anche coloro che superano le soglie minime reddituali di accesso alla misura che sono quella dei 35.000 euro annui e, in seconda battuta, e con i limiti previsti dal DL n. 18/2020, quella dei 50.000 euro annui.

Se si considera, infatti, che non potevano accedere alla misura tutti coloro che già possono usufruire di uno stipendio, come gli insegnanti di scuola, e che numerosissimi – soprattutto dopo la riforma Renzi della scuola – sono gli iscritti agli albi che hanno trovato definitiva sistemazione nei ruoli (senza, tuttavia, lasciare la professione), il numero di Colleghi sotto soglia è evidentemente più ampio.

Però, dicevamo, che per chi conosce e studia questi argomenti, si è trattato della scoperta dell’acqua calda. Un’amara scoperta in ogni caso. Da anni, infatti, si parla di proletarizzazione della professione forense. Facile individuare le cause, molto più ardito indicare soluzioni, ipotizzare rimedi.

Le cause.

Mi sono iscritto all’albo degli avvocati di Trani a dicembre del 1990. Trenta anni fa quasi. All’epoca, si parlava già, da almeno venti anni, di un numero di avvocati spropositato rispetto alle effettive esigenze del Paese, soprattutto se confrontato con quelli degli altri stati, europei e non. Già da allora si ricordava in ogni congresso, riunione, convegno in cui si parlasse di avvocatura, che il numero degli Avvocati iscritti all’albo di Roma fosse superiore a quello di tutti gli Avvocati francesi.

Ritorniamo agli anni ’90, data del mio ingresso nella professione. Gli iscritti erano meno di 90.000. Dopo meno di venti anni questo numero si era più che raddoppiato ed oggi siamo a quasi tre volte il numero di trenta anni fa.

Qualcuno dirà: sono aumentati anche i numeri delle cause e dei diritti da difendere. Non è così vero: forse il numero assoluto dei giudizi è aumentato (grazie anche al boom delle materie suscettibili di tutela in ambito previdenziale), anche i nuovi diritti meritevoli di tutela giuridica sono in numero superiore al passato, ma in realtà da almeno 15 anni, la politica, preoccupata dalla non più sostenibile lunghezza dei giudizi e dalle sanzioni economiche connesse, provenienti prima dalla Unione Europea e poi dalla Legge Pinto, ha messo in campo una serie di interventi legislativi finalizzati a disincentivare il ricorso alla giustizia. Interventi, tuttavia, che in realtà non hanno inciso in modo determinante sulla durata dei processi, ma hanno sicuramente contratto la domanda di giustizia o, meglio, ne hanno reso molto più oneroso l’accesso.

Parlo di frequenti aumenti del contributo unificato, giunto a livelli insostenibili, per il cittadino e le imprese, soprattutto per alcune tipologie di giudizio e per le impugnazioni, di sanzioni di tipo economico a carico delle parti in caso di proposizione di giudizi infondati, e, infine, di ostacoli all’instaurazione dei giudizi, come l’improcedibilità in caso di mancato avvio delle procedure di mediazione obbligatoria o di negoziazione assistita.

Questi interventi, come detto, nulla o poco hanno inciso sulla durata dei giudizi, che restano sempre biblici, ma hanno finito per ridurre la domanda di giustizia.

Gli Avvocati italiani restano numerosissimi e molti, troppi, hanno redditi annuali che rasentano se non addirittura stanno al di sotto della soglia di povertà, che, per il nostro Paese, si attesta a poco più di 1000 euro per una coppia senza figli ed a poco meno di 1500 euro se si hanno due figli.

In compenso, sono notevolmente aumentati i costi di esercizio dell’attività, fra PCT, pec, strumenti informatici, obblighi di aggiornamento professionale da assolvere, bollette per consumi in costante aumento negli ultimi anni, atavica insufficienza del trasporto pubblico, con conseguente necessità di utilizzare autovetture, con connessi oneri di carburante e di parcheggio.

Non può infine omettersi di considerare che una delle voci più rilevanti di spesa – anche se in realtà tecnicamente non è esatto definirla in questi termini – è costituita dalla contribuzione previdenziale.

La questione, già molto seria prima di allora, è definitivamente esplosa con la L. 247/2012, la riforma della legge professionale, tanto desiderata prima della sua approvazione e altrettanto criticata dopo. In particolare, il problema si è posto con l’art. 21, che ha stabilito per tutti gli iscritti all’albo l’obbligo di iscrizione alla Cassa di Previdenza Forense, con connessi obbligo di versare i minimi contributivi.

Prima di allora, l’obbligo di iscrizione era previsto soltanto al raggiungimento di determinati livelli reddituali, mentre i non iscritti erano tenuti all’iscrizione alla Gestione Separata INPS – sebbene anche su questo ultimo argomento si siano scritti fiumi di parole e di sentenze (e la questione nonostante gli interventi della S.C. è ancora oggetto di dibattito) –  ed al pagamento dei contributi in misura, per quanto molto elevata, correlata al reddito prodotto.

La contribuzione minima alla Cassa è invece slegata dal reddito e sebbene per i primi anni di iscrizione e per i Colleghi più giovani siano previsti pagamenti ridotti, nella norma il pagamento di circa 4000 euro (ridotti a quasi 3.000 per gli anni 2018-2022, a seguito dell’esclusione del contributo minimo integrativo) all’anno – a prescindere dal reddito prodotto – costituisce un problema serissimo per migliaia di iscritti.

Detto delle cause, cerchiamo di passare al tema più difficile, quello delle possibili soluzioni.

Un’ulteriore brevissima premessa. Quello del versamento dei contributi previdenziali è un obbligo che trova la sua fonte primaria nella Costituzione all’art. 38. La norma si esprime in termini di diritto al trattamento previdenziale, ma è evidente che perché si possano creare le condizioni per cui questo diritto irrinunciabile si realizzi, è necessario che tutti i consociati contribuiscano. Dal che deriva che ogni tentativo di escludere l’obbligo contributivo non potrà avere territorio nel nostro ordinamento. Ma quello di alleviare la pressione contributiva sui percettori di redditi più bassi resta un tema o, forse, il tema, che dovrà essere affrontato.

Sin qui, abbiamo parlato dei costi della professione e del peso della contribuzione preventiva, ma ogni discorso sarebbe monco se non si parlasse – anche e soprattutto, aggiungerei – della crisi del reddito. Perché, se è vero che tremila euro all’anno di contributi siano un costo pesantissimo, è anche vero che se si produce un reddito pari o inferiore a diecimila euro all’anno e si è iscritti all’albo da più di cinque anni, senza voler fare alcuna colpa a chi si trova in queste condizioni, evidentemente si è intrapresa una strada sbagliata. E riconsiderare quella scelta è quanto mai opportuno.

E’ inutile riflettere oggi sul perché e per come si sia arrivati a riempire gli albi all’inverosimile, raggiungendo numeri del tutto incompatibile con la domanda, bisogna cercare soluzioni. Ed allora dall’incrocio dei dati reddituali e di quelli ricavabili dai rapporti Censis che ogni anno la Cassa di Previdenza commissiona al noto istituto di ricerca. emergono risultati che debbono fare riflettere e che devono costituire la base nel delineare possibili “ricette” e soluzioni.

Innanzitutto, emerge che la nostra professione è piena di contraddizioni e differenze. Non si può parlare di “unità della professione”, anche come opzione e slogan politico, se non si prende seriamente in considerazione il fatto che non esiste, da tempo, un’unica avvocatura e che quindi ciò che politicamente può essere giusto e opportuno per una parte della categoria, potrà essere deleterio per altra parte.

Esistono, infatti, profonde differenze non solo reddituali, ma anche di tipo culturale e di approccio all’attività, fra avvocati giovani e avvocati ultracinquantenni, fra avvocati uomini e avvocati donne, fra avvocati del centronord e avvocati del centrosud, fra avvocati di affari e avvocati del processo, fra avvocati dei grandi studi e avvocati degli studi medio-piccoli, fra avvocati associati e avvocati che svolgono l’attività a livello individuale, fra avvocati specializzati – a volte altamente specializzati – e avvocati generalisti. Appare evidente che risulti particolarmente difficile – ed è sicuramente questo uno dei maggiori limiti della politica forense – mettere d’accordo tutti questi interessi spesso confliggenti.

Altro dato che emerge è quello dell’estrema parcellizzazione della professione. Gli avvocati italiani, per varie ragioni che non appare opportuno approfondire, sono storicamente allergici alle aggregazioni. Le associazioni professionali, le società di avvocati e le collaborazioni di fatto hanno sempre avuto scarso successo e se talvolta da giovani, se non altro per ragione di economia di spesa, si è iniziata la professione in forma aggregata, molto spesso queste forme di collaborazione si sono sciolte con il passare degli anni.

Anche l’attuale legislazione fiscale – mi riferisco per esempio al regime forfettario – non incentiva le associazioni professionali. E, dunque, occorre incentivare forme di aggregazione, oltre che di specializzazione all’interno dello stesso studio associato, in modo da poter offrire alla clientela una varietà di competenze, realizzare economie di scala, recuperare risorse per formare associati e collaboratori, utilizzare con maggiore incisività strumenti pubblicitari e di marketing, nei limiti di quanto consentito dalle norme ordinamentali e deontologiche.

Ci sono, poi, nicchie di mercato, poco, pochissimo esplorate dagli avvocati. Mi riferisco al diritto tributario, spesso lasciato a praticoni e commercialisti, al diritto industriale, al diritto informatico e delle nuove tecnologie, al diritto alimentare, al diritto internazionale. Va da sé che un professionista non può aprire uno studio, soprattutto a determinate latitudini, per occuparsi da solo di diritto alimentare. Ma, se integrato in uno studio multiprofessionale, avrebbe certo più spazio per poter operare, per cui le due ricette di aggregazione e di specializzazione in ambiti poco battuti vanno senz’altro a braccetto.

Infine, il marketing. Pochi, pochissimi usano strategie di marketing, magari affidandosi a professionisti specializzati in questa materia, per la promozione delle proprie attività professionali. Vi è quasi una certa, impropria, pudicizia (retaggio di un vero ostruzionismo praticato dal sistema ordinistico), nell’utilizzare queste metodologie, per cui la stragrande maggioranza dei Colleghi non fa assolutamente nulla per promuoversi e resta in attesa che il cliente, magari attratto dalla targhetta apposta sulla porta dello studio, suoni il campanello. Qualcun altro si limita a creare una pagina facebook o un sito internet che nella maggior parte dei casi si scorderà di aggiornare. Altri, già un po’ più attenti, curano con una certa continuità un blog giuridico. Pochi, troppo pochi, si affidano a un esperto di marketing, investendo anche dei denari su una strategia che possa dare risultati effettivi e far conoscere al meglio le sue competenze.

Va da sé che anche rispetto a tale ipotesi di lavoro, l’aggregazione con Colleghi o altri professionisti, non può che giovare, perché promuovere competenze più estese di quelle di un singolo avvocato, evidentemente consente un risparmio di spesa e un’offerta più variegata.

Infine, un’ultima considerazione. Abbiamo sempre ritenuto un tabù parlare di “servizi legali”, quasi si trattasse di una commercializzazione della professione. Abbiamo sempre visto il “mercato” come qualcosa da cui rifuggire, preferendo invece invocare il ritorno a una professione “protetta” da tariffe e minimi inderogabili.

Sono certo che la riforma Bersani abbia fatto danni enormi e che lo scopo della stessa (favorire i consumatori risetto al professionista considerato come contraente forte) sia stato totalmente fallito, perché si sono messi i professionisti (essi sì contraenti deboli rispetto all’istituto bancario, alla compagnia telefonia, alla compagnia assicurativa, alla P.A.) alla mercè dei grandi committenti.

Come sappiamo tutti, tornare indietro è sempre complicato e la legge sull’equo compenso, nonostante gli entusiasmi che ne hanno accompagnato l’emanazione, non ha ancora dato alcun frutto concreto. Il vero è che il gran numero di Colleghi ha creato un surplus di offerta, tale che i grandi committenti ne approfittano, soprattutto laddove l’oggetto della prestazioni sia di tipo seriale e a basso livello di difficoltà (recupero credito, decreti ingiuntivi, esecuzioni, ecc.).

Ed allora ha ancora senso di avvinghiarsi a concetti come il decoro della professione, l’onore della toga, a guardare al mercato con disprezzo, laddove la funzione difensiva si è andata di fatto svilendo nel tempo?

Appare evidente a tutti che non c’è più spazio per tutti nella difesa nel processo. Abbiamo finito per ingolfare persino l’albo dei cassazionisti.

E’ possibile pensare a due albi separati? Un albo per coloro che difendono nel processo e un albo per coloro che invece erogano servizi legali e quindi con regimi di incompatibilità meno rigorosi, che consentano anche lo svolgimento di ulteriori attività lavorative/imprenditoriali?

Un po’ come la differenza fra barrister e sollicitor nel diritto anglosassone?

C’è poi il tema degli avvocati monocomminttenti, ma per parlarne occorrerebbe un altro articolo ad hoc.

Domenico Monterisi

Avvocato del Foro di Trani

già Delegato Distrettuale OUA

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