L’avvocatura italiana è morta.

L’avvocatura italiana, almeno nella forma che la storia ci ha restituito, è morta.

Fatevene una ragione.

La pandemia ha solo avuto il compito di squarciare il velo sotto il quale si nascondevano problemi ben più complessi ed articolati che, nel corso degli anni, hanno ridotto l’intero ceto forense ad un coacervo male assortito di individui l’uno contro l’altro ed al limite della sopravvivenza.

“Tutto va bene, madama la marchesa” così come cantava Filogamo in quella simpatica canzoncina dove la marchesa interrogava per telefono il maggiordomo che la rassicurava mentre rendeva puntuale informazione dei disastri avvenuti al castello.

Nel caso di specie, la contessa (l’avvocatura di base) non si è nemmeno preoccupata di chiedere al maggiordomo (i vertici, gli eletti) come andassero le cose, preferendo godere dei modesti privilegi riconosciuti alla decadente casta.

Il castello è caduto, la preziosa mobilia è bruciata, i gioielli volati via e ciò è accaduto per l’indolenza, la mancanza di volontà della Contessa che abusando della pazienza del maggiordomo di turno e sotto la costante minaccia di licenziamento del medesimo ha preferito guardare altrove.

Rappresentazione di tale contingente condizione è l’immensa platea di Avvocati, circa 102.133, ammessi a beneficiare del bonus così come impropriamente definito – e qui non sappiamo se per dignità o ignoranza –  e di quella altra ed ulteriore messe di aventi diritto (35.000) non beneficiati per l’esaurimento delle risorse governative.

I proventi di riferimento per poter accedere al “reddito di ultima istanza” (D.M. 28.03.2020) sono quelli del periodo d’imposta 2018, che restituiscono un dato estremamente significativo, ovvero una parte rilevante degli avvocati produce un reddito al limite della povertà e comunque assolutamente inadeguato non solo a garantire le condizioni previste per l’esercizio della professione, ma soprattutto inidoneo ad assicurare una vita decorosa.

I dati sono mediamente attendibili fatta salva qualche eccezione di sottrazione fraudolenta di redditi dalla base imponibile.

Tuttavia costituisce prova dell’impoverimento della categoria, il considerevole numero di avvocati che non inviano il modello 5 alla Cassa, oltre a quelli che si sottraggono alla contribuzione obbligatoria.

Particolare attenzione è meritevole l’ulteriore sintomo di crisi dato dall’omissione del pagamento della tassa di conservazione e dal mancato rispetto dei requisiti per lo svolgimento della professione – quantomeno di quelli logistici quali ufficio e linea telefonica dedicata – fatto questo estremamente grave e sintomatico dell’atavica predisposizione di taluni al dispregio verso le regole.

La ricerca delle responsabilità non potrà prescindere da un profondo esame di coscienza ad opera della base, ovvero da coloro i quali attraverso il proprio comportamento hanno contribuito alla distruzione di una professione anche attraverso l’elettorato attivo.

Molto spesso è accaduto che il diritto di voto venisse espresso ad usum delphini  e ciò non nel precipuo interesse della categoria ma nel tentativo di agevolare una propria posizione personale, magari preferendo un maggiordomo più incline alla devozione piuttosto che uno ligio al dovere e pronto a redarguire la marchesa per i comportamenti non conformi al rango.

Ripartire si può ma è necessario un sano esame di coscienza collettivo.

Fidatevi.

Il Grillo Parlante

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