I giuristi più insigni distinguono tra costituzione formale, cioè quella semplicemente scritta con le sue partizioni, i suoi articoli e i suoi commi, e costituzione materiale, cioè quella vigente nella prassi. Ebbene, all’ineffabile presidente del Consiglio Giuseppe Conte, prima avvocato del popolo poi avvocato della casta, è riuscito quel che nemmeno ai riformatori è mai riuscito: cambiare l’interpretazione del primo comma dell’articolo 1 della Costituzione, che formalmente recita: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». E che ora va riletto così: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sui voltagabbana».
Ma chiediamoci: la colpa, o il merito – a seconda dei punti di vista – è solo di Conte e di coloro che prediligono la poltrona? No. Conte e i suoi l’hanno potuto fare perché glielo consente nientepopodimeno che la Costituzione. L’articolo 67, infatti, che concede ai membri del Parlamento di cambiare casacca a proprio piacimento infischiandosene del fatto che sono stati eletti in una formazione politica con un preciso programma, recita: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». I parlamentari, in altri termini, non hanno vincolo di mandato, non rispondono a chi li ha eletti!
Scrive il giornalista Alessio Mannino divulgando quel che già un’autorevole dottrina sostiene: «con questa storia di rappresentare la Nazione in astratto, lorsignori hanno giustificato un ceto politico autoreferenziale che invece di fare gli interessi della comunità si fa gli affari propri. Il mandato non viene dall’intero popolo, ma è emanazione di una circoscritta area con un ben determinato numero di aventi diritto. Esprimendo così un ben preciso crogiolo di esigenze, bisogni e aspettative locali. Il vincolo, nei fatti, c’è tutto. Negarlo, formalmente, è pura finzione giuridica» (in Contro la Costituzione. Attacco ai filistei della Carta ‘48, Circolo Proudhon, 2016).
Il trasformismo, sancito da questo articolo, finisce per alterare sostanzialmente la volontà popolare e contraddire il secondo comma dell’articolo 1 che recita: «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione».
Ma non è il solo articolo in contrasto col secondo comma dell’articolo 1 della Costituzione: c’è pure quell’articolo 59 che concede al Presidente della Repubblica di nominare ben cinque senatori a vita, che dunque non dipendono dall’elezione popolare, bensì da un atto discrezionale del Monarca, pardon!, del Presidente della Repubblica. Si tratta, in buona sostanza, di un retaggio del vecchio Statuto Albertino, quando era il Re a nominare il Senato. Cinque senatori che possono contare nel fare o disfare maggioranze e dunque alterano la volontà popolare.
Il mercato delle vacche di cui il Governo e il Parlamento stanno dando un indegno spettacolo in questi giorni di crisi politica, suscita riprovazione nell’opinione pubblica. Ma non basta deplorare il trasformismo o il voto dei senatori a vita, occorre per le forze politiche che si candidano a governare prossimamente la nazione, puntare con decisione all’abrogazione di questi due articoli che consentono legalmente i giochini di palazzo.
Sandro Marano