“L’adulatore è colui il quale dice – senza pensarle – le cose medesime che l’adulato pensa di sé – senza avere il coraggio di dirle” (G. Papini).
Dite la verità: quanti di noi amano sentirsi dire “quanto sei bello”, “quanto sei buono”, “quanto sei bravo”? E quanti di noi vorrebbero sentirselo dire più volte al giorno, per più volte alla settimana e per più volte nell’anno? Siamo sinceri, una volta tanto.
E quanti di noi vorrebbero che questi complimenti fossero fatti da così tante persone da farsi indurre, alla fine, alla consapevolezza di essere veramente belli, buoni e bravi? Anche se poi la verità è tale a metà?
Come tutte le cose della vita, anche nella adulazione si incontrano due persone: chi adula e chi vuole essere adulato. E non c’è una terza via.
C’è chi prova piacere nel sapere di essere al centro dei pensieri (falsi o reali, ma questo è un altro problema) dell’adulatore. Ed è paragonabile al pavone che deve fare la ruota con la coda per farsi notare per la sua bellezza (anche se potrebbe non essere bello). E c’è chi prova piacere (per qualsiasi motivo; ma il più delle volte lo fa perché vuole essere vicino al sole, credendo in tal modo di poter vivere di luce riflessa) ad adulare. In fondo, dove c’è gusto, non c’è perdenza.
Il buon Papini (ma non solo lui) parlava di adulatore. Chi non è fine pensatore, filosofo, giornalista sopraffino (qual era Giovanni Papini), più semplicemente e più volgarmente parla di lecchino.
Lecchino è sostantivo riconosciuto nella lingua italiana, al punto che nel Vocabolario On Line della Treccani viene indicato come “.– 1. Adulatore servile: di gonne regali umil lecchino (M. Rapisardi, alludendo al Carducci per la sua ode alla regina Margherita). 2. tosc. Bellimbusto, vagheggino: smetti di fare il lecchino”, di fatto assurgendo ai fasti della citata nostra lingua.
Ma il lecchino è qualcosa di più di un sostantivo: è una gramigna che si innesta nelle piante buone ed infesta tutta la flora, facendo tanti, tantissimi danni.
Tutti odiano il lecchino; però lo odiano a parole, perché – nei fatti – il lecchino serve. Serve al potente di turno che odia sentirsi dire di stare sbagliando; serve al gregge che, in lui, si identifica e (cercando di imitarlo) vuole raggiungere alcuni personalissimi risultati (a proposito: sempre nel vocabolario Treccani si legge – a proposito dell’imitazione – che “IMITARE: prendere a modello una persona o le sue qualità, seguendone l’esempio e cercando di diventare simile o di fare qualcosa di simile (i. le persone sagge; i. un attore; poeta imitato da molti ma da nessuno uguagliato; i. lo stile di un artista). 2. Quando ha come complemento oggetto una cosa, una caratteristica o una situazione, imitare significa riprodurre in modo uguale o il più simile possibile (i. il modo di camminare, di parlare di qualcuno; i. il belato di una pecora, il fischio di una sirena; i. con la voce il suono di una tromba; i. un prodotto, un sistema di fabbricazione; la scimmia imita i gesti dell’uomo”.). E serve anche a chi, additandolo come il male dei mali, cerca di mettere in guardia i suoi simili dal non emulare le gesta del lecchino, perché poi non è che si faccia una bella figura.
Ed allora, viva il lecchino perché c’è ed esiste, perché “cercando di riprodurre il belato della pecora” e riuscendoci benissimo, è facilmente individuabile.
Ma, per favore, evitiamo di essere come lui visto che i guai non li crea solo il potente di turno adulato; li crea soprattutto il lecchino adulatore. Morto un adulato, il lecchino troverà qualcun altro da adulare (e questo qualcun altro sarà contento di farsi adulare).
E’ arrivato il momento di spezzare questa catena perversa. Ne va della nostra salute (anche di quella del lecchino, si intende).
Nicola Zanni