Qualche tempo fa, non troppo lontano, in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario, il presidennte di CNF Mascherin spendeva delle parole davvero importanti per l’avvocatura ed il suo sistema. Citava testualmente che “l’avvocatura deve avere «un suo progetto politico, dobbiamo scendere in campo», cogliendo nell’inaugurazione dell’anno giudiziario del Cnf “l’occasione per una svolta”. In particolar modo Mascherin invitava gli avvocati ad un impegno politico, dicendo che il nostro Paese ne ha bisogno. Parlava Mascherin di un “dialogo politicamente strutturato con il decisore, che presuppone da parte nostra un’idea chiara dell’arte del governo»; e addirittura in «una democrazia solidale che non lascia indietro nessuno, e che sia ricostruita a partire dal ceto delle professioni, dal ceto medio, che non può più essere compresso da un mercato senza regole». Un’idea che prende sì spunto dai temi propri della giurisdizione, a cominciare dal «dialogo con la magistratura, con la stessa Anm», anche attraverso riforme come quella del voto agli avvocati nei Consigli giudiziari.
Secondo Mascherin «noi avvocati dobbiamo metterci in gioco. Andare oltre. Non si tratta di fare un partito, ma di avere una visione e promuoverla». Un linguaggio inedito, per l’inaugurazione dell’Anno giudiziario del Cnf.
Di quanto sia centrale il ruolo degli avvocati per le istituzioni, ahimè, invece ce ne siamo accorti strada facendo, quando il sistema si è imbattuto nella realtà del coronavirus, che ha solo portato alla luce prepotentemente le criticità della nostra categoria. E le prospettive di rinascita si sono modificate. Per usare un eufemismo.
Alla luce dello stravolgimento che stiamo vivendo, con il ridimensionamento delle attività giudiziarie, il ricorso sempre più esiguo alla oralità del processo, la conseguente crisi del lavoro, mi pare che la figura stessa dell’avvocato ne stia uscendo ridimensionata rispetto allo stesso sistema. Abbiamo forse smarrito il senso del nostro peso, o forse ce lo stanno facendo credere?
In questo quadro fumoso e privo di prospettiva, come si pone la politica forense? Mi domando e dico, che ruolo oggi vuole avere la politica forense? Aiuta il singolo avvocato? Lo difende, se ne fa relamente portavoce?
Mi hanno molto colpito le parole di un collega, certamente illuminato sul tema della politica forense e che certamente ha illuminato i misteri dei vertici dell’avvocatura. Tale collega asseriva, poco tempo fa, che la c.d. Exit strategy rispetto alla professione, andando verso l’assunzione nella P.A., non è poi così sbagliata e che va contestualizzata rispetto alla attuale situazione nazionale. Ma ancor più mi ha colpito un concetto, che mi gira da tempo nella mente come un tarlo, secondo cui “le istituzioni forensi sono utili agli avvocati come una forchetta è utile per prendere il brodo”. Stando a queste parole, sembra a primo acchitto che la politica forense abbia fatto la fine del Titanic scontratosi su un iceberg (la crisi economica) e che ne sia uscita sconfitta, e che l’illecito sistema ordinistico abbia fatta il resto. Sarebbe dunque colpa del malaffare, clientelismo clerotizzazione del sistema affidato a pochi.
Personalmente, parto dal personalissimo concetto che bisogna saper fare politica forense. Sono per esperienza portata a pensare che il clientelismo, ovviamente sempre presente, non sia al di sopra dell’avvocatura ma dentro l’avvocatura. Per quanto creda ancora nello spirito di servizio, non mi pare che sia una strada veramente gradita perchè a conti fatti, scevra di convenienza, mi pare che frutti poco. Credo, invece, che la tutela della nostra professione si costruisca dall’interno. C’è chi lo fa ogni giorno, credendoci, col rischio di imbattersi nella solita maggioranza composta da chi gradisce principalmene il caldo rassicurante della sedia che occupa.
No, la politica forense non dovrebbe essere lo strumento per ingraziarsi il sistema. Dovrebbe fare (o dovremmo dire continuare a) fare politica forense chi ha il coraggio di offrire tutte le tutele ai propri colleghi, senza remore, senza avere un occhio alla promessa al collega ed un altro all’obiettivo di politica regionale o nazionale. Nel ruolo dell’avvocato bisogna crederci, e solo credendoci si può rimanere nel sistema con la consapevolezza di ciò che si ha in mano e di ciò che si può fare. No, l’avvocatura non deve occuparsi di praticare la politica forense con lo spauracchio che vi sono “vecchi e decrepiti occupanti dediti solo a far cercare per se stessi l’occupazione”. Se ne esci, magari non hai praticato sufficientemente la professione e ti sei dedicato più a scalfire le coscienze con metodo (probabilmente) discutibile.
No, l’avvocatura non è fake della storia e non è morta. L’avvocatura ha bisogno dei mezzi per tutti e di una politica che miri a spiegare la ragionevolezza dei mezzi offerti. Politica forense è osservazione e scandagliamento del nostro sistema, reperimento dei mezzi, nel frattempo favorendo il ricambio dei ruoli. Senza dimenticare che nel frattempo bisogna lavorare, anzi bisogna saper lavorare.
Perchè non si può camminare tutta la vita con la convinzione di aver sotto quella sedia rassicurante come somma risoluzione a tutti i problemi.
Ha ragione chi dice che prima o poi chi è attaccato alla sedia dovrà scendere sulla terra e tornare a lavorare.
Barbara De Lorenzis
Visite
- 1.271.600