La Convenzione di Istanbul e il divieto di mediazione obbligatoria

Il 28 settembre 2022 si è tenuto il primo incontro del ciclo formativo sulla violenza di genere organizzato dalle associazioni “La Forza delle Donne” e “Futuro@forense”, con il patrocinio dell’Ordine degli Avvocati di Bari e del CPO nel quale ho avuto l’onere di essere tra i relatori.

Il mio intervento ha riguardato, in particolar modo, il divieto della mediazione nei casi di violenza, così come sancito all’art. 48 della Convenzione di Istanbul.

La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica (meglio nota come Convenzione di Istanbul) è stata approvata il 7 aprile 2011 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa: in Italia è stata ratificata dalla Legge 27 giugno 2013, n. 77 ed è entrata in vigore il 1° agosto 2014. Questa Carta, per la prima volta, ha espressamente e ufficialmente dichiarato che la violenza di genere è ‘strutturale’ ed è quindi il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante che determina un quadro giuridico completo allo scopo di proteggere le donne e i bambini contro qualsiasi forma di violenza, fisica, sessuale, psicologica o economica.

La Convenzione di Istanbul, composta di 81 articoli, vieta la mediazione familiare obbligatoria procedimenti di separazione e di affidamento nei casi di donne che hanno subito violenza (punto 1 dell’art. 48) L’art. 48 sancisce, infatti, che “le parti adottano le misure legislative o di altro tipo destinate a vietare il ricorso obbligatorio ai metodi alternativi di risoluzione dei conflitti, tra cui la mediazione e la conciliazione, in relazione a tutte le forme di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione”ed il ricorso a qualsiasi altro procedimento di soluzione alternativa delle controversie, come la conciliazione. Il motivo del divieto è chiaro. Quando una donna vittima di violenza decide di separarsi, la mediazione può rivelarsi un’arma nelle mani del partner violento per mantenere il dominio e il controllo della vittima stessa e per impedire la separazione.

Invece Tribunale ordinario e Servizi sociali caldeggiano nella maggioranza dei casi alla mediazione familiare. Una contraddizione continua, tra quanto previsto dalla Convenzione internazionale che tutela le donne e quanto attuato nei tribunali. E la ricerca cita studi scientifici, anche internazionali, che dimostrano la contraddittorietà di un obbligo di mediazione e quanto sia pericoloso nei casi di violenza domestica.

Nei tribunali civili e per i minorenni, che spesso intervengono nel percorso di fuoriuscita dalla violenza delle donne madri supportate dai centri antiviolenza, la Convenzione di Istanbul sembra di fatto sconosciuta e non viene applicata per quanto riguarda le decisioni in merito all’affidamento di figlie e figli. E si conferma il ruolo preponderante delle CTU e la conseguente vittimizzazione secondaria delle donne che hanno subito violenza nei tribunali civili e per i minorenni. Nei nostri tribunali si tende a disgiungere la coppia genitoriale da quella coniugale, ignorando la violenza in quanto non sarebbe una problematica riguardante la sfera genitoriale. Ancora una volta l’uomo/maltrattante e la donna/vittima sono posti sullo stesso piano, operando una ri-vittimizzazione di quest’ultima. Nell’ambito della mediazione familiare, un aspetto critico e spesso dibattuto riguarda la possibilità di ricorrervi quando siano presenti all’interno della coppia casi certi o presunti di violenza domestica. La violenza domestica è generalmente considerata uno degli ostacoli che impediscono il ricorso alla mediazione familiare, nell’ambito della quale deve sempre essere garantita una condizione di equilibrio tra le parti, che permetta a tutti di prendere scelte consapevoli e libere per il proprio futuro e quello dei propri figli. La principale finalità del percorso di mediazione è, infatti, quella di favorire la relazione genitoriale oltre la fine del rapporto di coppia, rendendo le parti capaci di rinegoziare le relazioni familiari. I genitori sono chiamati a collaborare, trovando soluzioni pratiche, compatibili con le esigenze di entrambi sulle principali questioni inerenti alla gestione, la cura, l’educazione dei figli, il loro mantenimento e la divisione dei beni della coppia. Per raggiungere tale obiettivo e riuscire a negoziare, è necessario e imprescindibile che le due parti siano sostanzialmente su un piano paritario e che sia rispettato il principio di uguaglianza tra le stesse. Il rispetto di tale principio implica che la mediazione familiare sia fortemente sconsigliata e non possa essere intrapresa e proseguita nelle situazioni di violenza domestica in cui le posizioni sono distanti e opposte, poiché una delle parti compie intenzionalmente atti che, attraverso l’esercizio minacciato o reale di una forza fisica o di un potere coercitivo, ingenerano o possono ingenerare nell’altro lesioni o sofferenze fisiche, psicologiche o sessuali. Determinando, quindi, una limitazione o privazione della libertà personale. Si crea nella relazione una posizione dominante e prevaricatrice che provoca uno stato di sottomissione e timore nell’altro, e che non permette alle parti di porsi in uno spazio libero e neutro dove poter concordare consapevolmente decisioni comuni. La stanza della mediazione rischia di diventare il luogo in cui la violenza viene ulteriormente agita: il maltrattante infatti, davanti al terzo estraneo alla coppia, potrebbe esercitare una forma di superiorità psicologica nei confronti della vittima, finendo per trovare una legittimazione alle proprie azioni e, allo stesso tempo, ridimensionarne la gravità. La contemporanea presenza della persona sulla quale è agita la violenza e di chi la agisce, può esporre la vittima a subire ancora le dinamiche abusanti che hanno caratterizzato il rapporto di coppia, rendendola insicura e incapace di analizzare i reali bisogni, personali e dei propri figli. Ciò può, inoltre, impedirle di negoziare liberamente e di concordare consapevolmente accordi, anche di natura economica, sull’affidamento dei minori che garantiscano la sicurezza futura degli stessi. L’autore della violenza potrebbe esprimere il pentimento – reale o simulato – per le azioni commesse; tentare di convincere la vittima che si asterrà da ulteriori comportamenti violenti fornendo false rassicurazioni per il futuro, ingenerando nell’altra parte incertezze e confusione. È opportuno, quindi, in questi casi, che il percorso di mediazione familiare venga interrotto e che le vittime di violenza siano invitate a rivolgersi ad altri professionisti o indirizzate verso le realtà territorialmente competenti, tra le quali i centri antiviolenza, che possano sostenerle e aiutarle ad uscire dalla spirale di violenza.

Affinché ciò possa avvenire in modo efficace, tuttavia, è indispensabile incentivare una specifica formazione in materia in modo che tutti i professionisti coinvolti sappiano valutare e riconoscere la differenza esistente tra alta conflittualità e violenza domestica. Questo soprattutto al fine di tutelare gli interessi dei minori e garantire che gli eventuali episodi di violenza siano debitamente presi in considerazione nel momento in cui vengono stabiliti i loro “diritti di custodia e di visita”, così come espressamente sancito dall’art. 31 della Convenzione di Istanbul.

La violenza non viene sostanzialmente riconosciuta dai tribunali civili e per i minorenni in quanto, nelle decisioni adottate dai tribunali civili e per i minorenni, la Convenzione di Istanbul non è quasi mai citata come riferimento normativo. Ancora più grave la situazione quando si guarda alle decisioni in merito ai/lle minori che possono aver assistito alla violenza o aver subito violenza essi stessi: per i Tribunali l’obiettivo principale è salvaguardare e conservare ‘il rapporto con la prole’, ovvero il legame genitore-figlio/a, indipendentemente dalla presenza di condotte violente nei confronti della madre. La convinzione radicata è che un uomo maltrattante possa essere un buon genitore. Questa prassi “è in aperta violazione dell’articolo 48 della Convenzione di Istanbul e produce una vittimizzazione secondaria”. Per un meccanismo perverso, la violenza sulla donna/madre viene declassata, quasi sempre, a conflittualità genitoriale con la conseguenza aberrante della disapplicazione dell’art. 31 della Convenzione a mente del quale “al momento di determinare i diritti di custodia e di visita dei figli, devono essere presi in considerazione gli episodi di violenza che rientrano nel campo di applicazione della Convenzione”. Anche in presenza di violenze denunciate e/o in corso di accertamento in sede penale, vengono così emanati provvedimenti in sede civile stereotiparti, che impongono l’affido condiviso dei figli e conseguentemente la necessità di una continua (deleteria) relazione tra la donna che subisce violenza e l’uomo violento, con ripercussioni a dir poco negative sui minori, il cui preminente interesse sembra recessivo al principio della bigenitorialità da rispettare a tutti i costi. In questo modo si sottopongono continuamente i soggetti più fragili proprio a quella vittimizzazione secondaria che la Convenzione intende scongiurare, e che per la Raccomandazione n. 8/2006 del Consiglio d’Europa definisce “… non si verifica come diretta conseguenza dell’atto criminale, ma attraverso la risposta di istituzioni e individui alla vittima”.

Tutto nasce dalla mancanza, in sede civile, di adeguata istruttoria sui fatti di violenza denunciati, dal loro mancato tempestivo accertamento: inadeguatezza da attribuire al Giudice che non esercita il potere d’ufficio e non procede personalmente all’ascolto del minore e all’interrogatorio delle parti o all’esame delle persone informate sui fatti, consegnando così un quesito al CTU privo di alcun riferimento alla violenza. Inadeguatezza da attribuire anche al Pubblico Ministero che, intervenendo nel processo civile, potrebbe “arricchirlo” di quanto già acquisito in ambito penale. Inadeguatezza dei difensori, che molto spesso non depositano la documentazione necessaria e sufficiente a stimolare l’attività istruttoria d’ufficio del Giudice.

Emblematica è una sentenza del Tribunale di Palmi (Presidente Dott. Piero Viola, Giud. Est. Dott.sa Nesci), relativa ad una separazione tra coniugi, la quale afferma come nella decisione relativa all’affido dei figli rivesta un’importanza fondamentale l’allegazione di dinamiche violente nella coppia. In tali casi la protezione della donna e la tutela dell’interesse superiore del bambino devono dirigere le scelte in materia di affido e diritto di visita, assumendo un ruolo determinante. Ciò in applicazione dell’art. 31 della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla Prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica che trova attuazione anche arrivando a misure come la revoca dal diritto di visita e di affidamento quando queste rappresentino l’unico strumento idoneo a prevenire ulteriori violenze o ad evitare forme di vittimizzazione secondaria. Nel caso di specie la donna si era sottratta all’intervento da parte dei servizi sociali che le richiedevano un confronto costante con il compagno maltrattante. Il Tribunale rileva come il rifiuto della donna non vada interpretato alla stregua di una volontà non collaborativa da parte della stessa, ma sia pienamente legittimo in quanto esercizio del diritto di una donna, vittima di violenza familiare, a non avere più contatti con il partner maltrattante. Non può richiedersi infatti, come sancito dall’art. 48 della Convenzione di Istanbul, di intraprendere un percorso di mediazione familiare in presenza di episodi di violenza domestica; ciò condurrebbe, con un elevato grado di probabilità, a forme di vittimizzazione secondaria ed è quindi preferibile che i figli mantengano un rapporto autonomo col padre in modo da evitare che si reinstaurino relazioni familiari condizionate dalla violenza.

La sentenza è significativa in quanto si discosta dai provvedimenti “stereotipati” purtroppo ricorrenti nell’ambito dei procedimenti giudiziari e che conducono sovente a forme di vittimizzazione secondaria. La stessa sensibilità è opportuno venga attivata da avvocati, magistrati e operatori del diritto anche nel delicato compito di stabilire in quali ipotesi si debba evitare il ricorso alla mediazione familiare (al di là e oltre i casi incontrovertibili di condotte fisicamente violente e maltrattanti o abusanti), nel rispetto delle vittime vulnerabili e in considerazione “dell’amore malato” che le lega all’autore di reato (Cassazione docet).

Maria Antonietta Labianca

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