Il fallimento della democrazia generalista

Se dovessimo interrogare un comune cittadino sullo stato della giustizia in Italia, nella maggior parte dei casi ci sentiremmo rispondere qualcosa di inerente alla durata dei processi.

Una tale risposta rispecchia, in realtà, la profonda distanza del cittadino dall’istituzione-Stato e di tutto quanto è res publica. Questo disinteresse non attiene solo la “giustizia”. Provate a spostare l’attenzione sulla sanità e vi verrà immediatamente risposto in ordine alle interminabili liste di attesa per gli esami diagnostici, alla scarsità di posti letto, e così via.

In un caso e nell’altro il nostro interlocutore si porrà inevitabilmente dalla parte di chi attende un servizio e mai, con le dovute rare eccezioni, dalla parte di chi immagina, progetta, organizza queste funzioni vitali del massimo organismo comunitario che è lo Stato e del quale egli, teoricamente, dovrebbe essere “sovrano”.

Lo spirito uscito vincitore dalla seconda guerra mondiale, contrariamente ai grandi principi enunciati, ha finito col subordinare anche gli Stati alle regole di mercato. Non è un caso che oggi gli Stati soggiacciano alle regole di bilancio esattamente come qualsiasi altro soggetto di rilevanza economica. Non più la potestà di poter battere moneta per far fronte ad emergenze o per realizzare infrastrutture, non più poter ricorrere all’inflazione per spalmare in maniera proporzionale su tutti i le “disavventure” della Nazione. Oggi semmai lo Stato può ricorrere al prestito, esattamente come farebbe un padre o una madre di famiglia, o un imprenditore. In questo clima, il cittadino del 2020 è sempre meno cittadino e sempre più consumatore che attende dall’Ente-Stato, declassato a sua volta a semplice persona giuridica, i servizi per i quali paga. È un rapporto svilito nel do ut des, molto lontano da quello Stato per la cui realizzazione nell’800 si fece appello, allo spirito, alla lingua, al sangue. Che rapporto abbiamo comunemente oggi con lo Stato? Non certo un rapporto di appartenenza, di cittadinanza. Semmai un rapporto commercialmente conflittuale nel quale da una parte e dall’altra si tenta di fare business, ciascuno a danno dell’altro. È chiaro che in un panorama del genere, alla Politica, ridottasi ad amministrazione residuale, è rimasto ben poco margine di manovra dovendo anch’essa fare i conti con i limiti imposti dal mercato.

In questo decadimento lo Stato ha conservato, per ora, alcune prerogative tra le quali: il controllo dell’ordine pubblico e l’amministrazione giustizia. Certamente, delle due sarà la prima ad essere conservata  più a lungo. Quanto all’amministrazione della giustizia, sempre per ragioni che non hanno a che fare con i sacri principi costituzionali, ma con le disponibilità economiche, già sono sotto gli occhi di tutti i segnali di cedimento e di deregolamentazione in favore di organismi privati. I limiti economici nei quali versa lo Stato sono altresì gli unici veri motivi delle continue riforme, anche in tema di Giustizia, il tutto mentre la Carta etica europea del 2018 ha aperto all’applicazione dell’intelligenza artificiale in ambito giudiziario.

A fronte di tutto ciò, diciamocelo con franchezza: al popolo di cosa succeda nelle aule dei tribunali non frega proprio niente e tanto fino a quando non è costretto a metterci piede, fino a quando non ne diventa utente. Ecco il perché quando chiederete al passante cosa ne pensi dello stato della giustizia in Italia, nel 90% dei casi tirerà in ballo le lungaggini processuali: perché lo ha orecchiato dai mezzi di informazione di massa che, in pari percentuale, si interessano alla giustizia soprattutto in questi termini numerici.

La democrazia generalista nella quale alcun ruolo progettuale rivestono le competenze professionali, al contrario della democrazia partecipativa, porta esattamente al punto nel quale ci troviamo: al tutti contro tutti, all’homo homini lupus. Un bel passo indietro per la civiltà.

Mi verrebbe da dire rischiando di cadere in una sana retorica, e noi avvocati italiani del 2020, indegni eredi di Roma? Il nostro compito potrà essere solo quello della difesa dei diritti dei nostri assistiti, o non dovremo forse indossare la toga per la difesa del Diritto stesso, minacciato dalla morsa economico-finanziaria nella quale è caduto lo Stato? Avremo la codardia di assistere passivamente a questo declino etico prima che politico? Certamente no. L’avvocatura oggi è chiamata ad un compito ancor più grande portare la protesta dell’umanità contro l’aridità del sistema; la vita, che passa sulle nostre scrivanie, contro l’astrazione delle norme e dei sistemi giudiziari. Assumiamo la difesa della civiltà, contro la deriva materialista.

Paolo Scagliarini

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