La notte tra il cinque e il sei di gennaio eserciti di donne si scatenano scambiandosi messaggi d’ogni tipo per salutare l’arrivo della Befana.
Video augurali si sovrappongono a messaggi piccanti che si collocano tra il goliardico e l’offensivo, annunci di scope e attrezzature di volo si incrociano con raccomandazioni e inviti alla prudenza.
Il tutto accompagnato da una buona dose d’ironia (almeno da parte di chi scrive) e dalla scherzosa accettazione del fluire del tempo. Ed è probabile che sia così.
Il tempo che scorre inesorabile genera avolte inquietudine. Meglio esorcizzarlo e mettere, come suol dirsi, le mani avanti: se sono vecchia e brutta o se, puta caso, gli altri mi ritengono tale, batto tutti sul tempo, annunciandolo da sola, fino a prendermi in giro.
Di sicuro questo è un modo simpatico e intelligente per ridere di se stessi e scrollarsi di dosso paure e ossessioni e/o stereotipi di genere che non restituisce, però, dignità alla “befanità” intesa come categoria ontologica.
Sentirsi befane, io credo e penso, significa vivere con serena disinvoltura le proprie imperfezioni; significa elargire doni con generosità senza aspettarsi nulla in cambio; significa servirsi di mezzi propri (anche di scope) senza dover dipendere da chicchessia.
A dispetto infatti di una cultura a volte sessista che ha sempre identificato nell’essere befane la bellezza sfiorita, la morte della femminilità, la giovinezza ormai finita, io rivendico il valore della befanità, della saggezza, dell’esperienza e della ironia.
Rivendico cioè una fisicità fatta di rughe e di corpi non più tonici, la sobrietà dell’essere, la femminilità del dare, la dignità degli anni che non vanno nascosti, ma mostrati con orgoglio.
Questo non significa rinnegare il valore della giovinezza. Al contrario. La giovinezza è una stagione della vita. La più bella. E proprio per questo va vissuta ed urlata. Ma è patrimonio di chi giovane è magari ancora dentro, ma che non pretende di ingannare il tempo con espedienti chirurgici, abiti scomodi e pose stridenti stante il peso inevitabile dell’età.
Ci siamo mai chiesti come mai per offendere un uomo non si ricorra a paragoni o ad accostamenti con Babbo Natale, mentre “Befana” è quasi sempre sinonimo di vecchia ciabatta o di attempata signora sul viale del tramonto, petulante e cadente?
Le parole e le intenzioni che accompagnano l’uso del termine Befana sono importanti, hanno un peso e sono lo specchio dell’anima. Svuotiamo tuttavia la parola befana della carica negativa – nel senso dell’offesa e dell’accezione dispregiativa – che l’ha lungamente accompagnata.
Restituiremo così dignità ed orgoglio a eserciti di donne che non vivono – ma che vorrebbero farlo – con serenità ed equilibrio la loro befanità.
Io con orgoglio rivendico il mio ruolo di Befana in questo tempo.
Noi ci siamo!
Eugenia Acquafredda