A margine del convegno di Futuro Forense tenutosi il 20 dicembre 2021, ove sono intervenuti a relazionare pregevoli colleghi, tra i quali il collega Manuel Virgintino, già Presidente del COA Bari nonché membro del CNF, quest’ultimo ha voluto affrontare il tema spinoso del rapporto tra la nostra categoria e quella delle istituzioni. Il collega ha individuato non pochi punti critici posti alla base della problematica di quello che oggi è il fattivo ruolo dell’avvocato. La disamina si è concentrata soprattutto sul quello che è il ruolo percepito, così il collega ci ha lasciato con non poche perplessità poiché ha individuato nella carenza di fiducia verso la nostra figura il nuovo, reale problema della nostra categoria.
La problematica nasce non solo dall’operato pratico dell’avvocato, ma a ben vedere, dalla condotta dello stesso, che effettivamente è in larga misura ricollegabile all’immagine che si dà di sé un bel problema. Cosa quindi ha contribuito a creare l’allontanamento dell’avvocato dalle istituzioni? Quale il motivo per cui la nostra categoria non rappresenta più l’anello di congiunzione? Cosa ci ha fatto perdere autorevolezza goduta rispetto al passato?
La mia personale interpretazione parte dalla (necessaria) disamina delle norme deontologiche sulla propria pubblicità soprattutto sulle piattaforme social.
Intanto, la modifica dell’art. 17 del codice deontologico forense del 16/10/1999 che ha eliminato il divieto espresso di pubblicità e ha riqualificato il tema in termini di informazione sull’attività professionale.
I mezzi di diffusione dell’informazione consentiti erano identificati: carta da lettere, biglietti da visita e targhe, brochures informative inviate anche a mezzo posta (esclusa la possibilità di proporre questionari o di consentire risposte prepagate); gli annuari professionali, le rubriche, i repertori e i bollettini con informazioni giuridiche, mentre erano da ritenersi vietati i mezzi non espressamente consentiti, e quindi: mezzi televisivi e radiofonici; i giornali e gli annunci pubblicitari in genere; la distribuzione di opuscoli o carta da lettere o volantini a soggetti indeterminati; le sponsorizzazioni, le telefonate di presentazione e le visite a domicilio non specificatamente richieste.
Quanto a siti web e rete Internet, l’uso era consentito solo per siti propri dell’avvocato o di studi legali associati o di società di avvocati e previa segnalazione al Consiglio dell’Ordine; era vietata l’utilizzazione di Internet per offerta di servizi e consulenze gratuite.
Bisogna arrivare all’ultima riforma del Codice Deontologico Forense del 22 gennaio 2016 per veder soppressi i preesistenti limiti sull’utilizzo dei siti web, ossia: l’obbligo di utilizzo di domini propri (senza reindirizzamento) direttamente riconducibili a sé, allo studio legale associato o alla società di avvocati alla quale l’avvocato partecipi, e previa comunicazione al Consiglio dell’Ordine; nonché il divieto di riferimenti commerciali o pubblicitari sia diretti che mediante collegamenti interni o esterni al sito.
Oggi, superata la diffidenza verso internet, le regole sono uniche quali che siano i mezzi di informazione, ivi compresi quindi l’uso di piattaforme o social network.
Quanto ai contenuti divulgati a mezzo internet, si potrebbe disquisire, ma qui ci si perde letteralmente, perché per molti di “noi” inizia il pernicioso discorso di ciò che si ha la facoltà di dire. E allora il decoro e parimenti il vincolo deontologico cedono il passo al diritto di dire e di affermare noi stessi. Dov’è andato a finire il ruolo?
Alcuni principi si possono sussumere sotto il generale dovere di veridicità: verità, trasparenza, dovere di non divulgare informazioni equivoche, ingannevoli, suggestive o che contengano riferimenti a titoli, funzioni o incarichi non inerenti l’attività professionale. Altre indicazioni fanno riferimento più direttamente al fair play professionale: dovere di correttezza e dovere di non divulgare informazioni denigratorie. Nel primo caso, l’interesse oggetto di tutela è quello della potenziale clientela; nel secondo caso, quello dei colleghi, e del decoro professionale.
Specifico e peculiare alla professione di avvocato è il dovere di segretezza e riservatezza: che è qualcosa di diverso dal rispetto del segreto professionale, è l’ulteriore dovere deontologico di evitare ogni riferimento a vicende patrocinate e alle parti assistite.
A questi principi va aggiunto il “Divieto di accaparramento di clientela” di cui all’art. 37 che comprende il divieto per l’avvocato di ogni attività diretta all’acquisizione di rapporti di clientela, a mezzo prestazioni di terzi, agenzie o procacciatori, nonché il divieto di offrire o corrispondere compensi quale corrispettivo per la presentazione di un cliente o per l’ottenimento di un incarico, fino al divieto di offrire, senza esserne richiesto, una prestazione personalizzata, cioè rivolta a una persona determinata per uno specifico affare.
Qualcuno potrebbe chiamarli “limiti”. Talaltro invece lo chiamerebbe “sapere quando è il caso di fermarsi”. Resta da capire se e quanto rispettiamo tutti questi principi.
Sottoscrivendo quanto detto dal collega Virgintino, aggiungo che una parte del fallimento della nostra figura è da attribuirsi (forse) alla nostra eccessiva fiducia nei social.
Parliamo molto di noi e del nostro lavoro, anche (direttamente o indirettamente) della nostra presunta posizione nella politica forense. Innegabile il vantaggio che ne deriva. Ciò comunque ci rende reperibili e giudicabili. Per taluni tale comportamento sarebbe un modo per accaparrarsi la clientela o anche per continuare a sostenere il proprio ruolo di prestigio nella politica forense, impegnato a tenere sotto controllo la propria “vanità”. Per altri sarebbe un modo per affermare unicamente la propria immagine, salvo poi imbattersi nel collega particolarmente incline a descrivere fatti connessi con la propria attività, che descrive così dettagliatamente circostanze lavorative da richiamare l’attenzione del suo stesso assistito e così portando nella piazza virtuale (che per certi versi è peggio di quella fisica) questioni complesse e delicate, messe poi alla mercé dei colleghi, mentre l’assistito inerme, è costretto a leggere e discettare della sua stessa condizione legale. Che dire di quei colleghi impegnati ad esibirsi così tanto da definirsi “avvoinfluencer”. Per non parlare del collega che si pone apertamente contro il sistema, dimentico del ruolo che riveste quale garante della legalità, della correttezza, della lealtà e della probità. Ai tempi del covid ce ne sono innumerevoli, giornalmente visibili.
Allora mi chiedo e vi chiedo: quale è il limite superato il quale si passa da avvocato nella sua accezione più alta per divenire avvocaticchio o imbrattacarte? Anche la qualità di ciò di cui si disquisisce sulle piattaforme social, ci definisce. Anche il sovraccarico di discussioni, anche abbracciare cause sociali di dubbia risoluzione portate all’esasperazione espone la categoria ad innegabili giudizi di valore.
L’Ordine Forense non è riconosciuto dai cittadini come corpo intermedio di aggregazione sociale. C’è un innegabile individualismo di fondo che cresce sempre di più . Perché l’avvocato dovrebbe essere integerrimo ed anche apparire tale”, mentre nella sostanza probabilmente non ne ha più voglia, dimentico di essere sostanzialmente chiamato svolgere una funzione sociale.
Certamente siamo chiamati a svolgere il nostro lavoro nell’ambito della funzione giurisdizionale: difendiamo diritti delle parti in causa, qualunque sia la scelta della parte. Ma possiamo fare di più, proprio per la capacità dell’avvocato di mettersi a servizio della tesi della propria parte senza necessità di doverne condividere la fondatezza. Nessuno meglio di noi sa sostenere tesi senza farle proprie. Difendere costantemente l’altro punto di vista, quello opposto a chi unilateralmente afferma le proprie convinzioni (e spesso in modo acritico). In ogni sede: nell’ambito delle sue relazioni sociali e nel quotidiano agire all’interno della società civile, senza perdere occasione per coltivare dialogo, instillando il dubbio nei tanti troppo convinti delle proprie ragioni, confrontandosi con chi sostiene una tesi per mostrargli le ragioni dell’altra parte, senza necessariamente aderirvi. Anzi, non aderendovi affatto, ma soltanto per coltivare il sano dubbio che oggi viene sempre più a mancare nelle convinzioni radicalizzate da ogni parte, e la capacita di ricostruire, nel dialogo, una possibilità di realtà condivisa.
Credo sommessamente che sia questo il compito più alto a cui l’avvocatura possa dedicarsi adesso, per svolgere una funzione sociale consona alla propria tradizione, con stile ed eleganza, evitando di appiattirsi su stilemi concettuali veicolati dai mezzi di informazione che, in modo talvolta decisamente scadente, abbassano il livello di confronto alla più trita discussione da taverna e in cui il sano coltivare dubbi (unico effettivo antidoto ai dogmatismi religiosi politici e sociali di ogni tipo) scompare dalla nostra vita.
Perché vale ancora la regola che ad “avvocato” debba essere accostata l’espressione “che voglia svolgere una funzione sociale”. Sempre che voglia continuare ad esserlo.
E’ chiaro che, se non percepiamo la funzione sociale all’interno della società civile, non vedo perché vale ancora la pena di non essere derubricati a meri prestatori di servizi legali.
Noblesse oblige encor
Barbara De Lorenzis
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