Premesso che “l’avvocato, al fine di assicurare la qualità delle prestazioni professionali, non deve accettare incarichi che non sia in grado di svolgere con adeguata competenza” (art. 14, Codice Deontologico), dobbiamo sempre tenere presente – nello svolgimento della nostra Professione – che l’art. 15, predetto Codice Deontologico statuisce che “l’avvocato deve curare costantemente la preparazione professionale, conservando e accrescendo le conoscenze con particolare riferimento ai settori di specializzazione e a quelli di attività prevalente”.
Dunque abbiamo l’obbligo (morale, prima ancora che deontologico) di curare costantemente la formazione professionale, evitando – quanto più possibile – di avventurarci in questioni che non siamo in grado di svolgere con adeguata competenza. E la stessa Legge n. 247/2012 (la c. d. Legge Professionale) – all’art. 11, c. 1 – al netto degli esoneri e le esenzioni di chi ne abbia diritto (c. 2, stesso articolo), stabilisce che “l’avvocato ha l’obbligo di curare il continuo e costante aggiornamento della propria competenza professionale al fine di assicurare la qualità delle prestazioni professionali e di contribuire al migliore esercizio della professione nell’interesse dei clienti e dell’amministrazione della giustizia”.
Tuttavia (e ciò da quando è stata prevista la obbligatorietà della formazione) ci si è posti una domanda: l’attuale sistema formativo (con quanto ne consegue, dal punto di vista del raggiungimento dei crediti) garantisce la effettiva preparazione degli Avvocati? O, piuttosto, non sarebbe più opportuno rivedere il sistema stesso, visto che – il più delle volte – la mera intenzione di raggiungere la meta dei crediti triennali fa sì che ci sia una sorta di acriticità nel seguire corsi ed eventi di aggiornamento professionale? Sul punto tutte le opinioni sono valide ed una seria discussione è auspicabile.
Due considerazioni a margine dei predetti dubbi sono da fare.
In primo luogo, non si può non notare come l’art. 11 della Legge Professionale costituisca (in evidenza) una sterile duplicazione delle norme deontologiche di cui agli artt. 14 e 15, Codice Deontologico.
Infatti, l’Avvocato deve curare la formazione professionale per la garanzia e la miglior tutela dell’assistito (e, se permettete, anche sua, visto che non è inusuale assistere ad azioni – il più delle volte capotiche ed infondate – intentate per presunta negligenza, ma fondate sulla mancanza di volontà di pagare il proprio Avvocato).
Questa è una delle tante critiche da muoversi alla Legge Professionale che – non dimentichiamolo mai! – fu osteggiata, ai tempi del Congresso di Bari, da qualcuno che – forse preveggente o forse perché la bozza se l’era letta – aveva individuato dei grossi buchi neri. Sappiamo come andò a finire: alcuni di quelli che oggi criticano la Legge Professionale, nel 2012, dal palco del Congresso di Bari (e dall’alto della loro striminzita pattuglia di Delegati) urlò che la Legge Professionale come pensata (e poi era approvata) era un obbrobrio ma era necessaria perché bisognava rivedere la Legge Professionale del 1933. Peccato che la Legge Professionale del ’33 la stiamo rimpiangendo ancora …
La seconda considerazione attiene, invece, alla efficacia del sistema dei crediti. Vale a dire: può, il mero assolvimento dell’obbligo formativo come attualmente strutturato e disciplinato, garantire la qualità delle prestazioni professionali e così contribuire al migliore esercizio della professione nell’interesse dei clienti e dell’amministrazione della giustizia? E’ mai stata fatta una statistica, se mai fosse immaginabile e possibile farla, sulla effettiva garanzia e tutela dell’assistito oggi, rispetto al passato, quando un obbligo di tal fatta non era stato ancora previsto (ma vigeva l’obbligo deontologico di assicurare la migliore difesa dell’assistito)?
Domande da un miliardo di euro cui – speriamo – si possa e si voglia dar seriamente una risposta.
Infine, è necessario spendere due parole sull’abuso dei corsi e degli eventi di formazione, in particolare per ciò che concerne i luoghi in cui questi si tengono ed i titoli degli stessi.
Premesso che i corsi e gli eventi formativi sono visti come un fastidio (il più delle volte) e che, quindi, qualcuno si ingegna per renderli meno pesanti (o, se volete, più affascinanti), l’intenzione (non si sa fino a che punto lodevole e da quale in punto in poi tendente a far parlare di sé) di uscire gli Avvocati dal proprio habitat (il Palazzo di Giustizia) e di dialogare con i cittadini si può definire il new mantra della formazione Professionale. Da qui il florilegio di iniziative che – lungi dall’apparire, prima che essere, finalizzate alla citata formazione professionale – sembrano tendere più alla promozione dell’immagine di alcuni organizzatori che alla reale formazione dei Colleghi.
In passato, abbiamo assistito a lodevoli, piacevoli ed interessanti presentazioni di iniziative editoriali (di Colleghi o di persone sempre legate a doppio filo con la Avvocatura) al di fuori dei templi in cui gli Avvocati esercitano il proprio magistero. Librerie di grido o anche di nicchia hanno ospitato queste presentazioni che hanno ottenuto il gradimento dei Colleghi i quali hanno partecipato agli eventi suddetti.
Oggi, a fronte di queste passate pregevoli iniziative, di contro vi sono delle iniziative demagogiche, populistiche e quasi contrarie alla dignità dell’Avvocato, miranti in evidenza a far parlare di sé e a non parlare della Categoria. Possono, gli eventi da bar, costituire un valido momento formativo, per quanto li si voglia ammantare di significato giuridico? Possono, i luoghi in cui questi eventi verranno presentati, dirsi degni della persona e della professionalità di un Avvocato?
Solo ponendo lo sguardo ad assise in cui il rispetto della Legge (e dei regolamenti interni a queste assise) è considerato un optional e che ben potrebbero, per ciò stesso, tenersi al bar (“siamo tra amici”), ci si rende conto del crescente imbarbarimento della Professione.
L’art. 9, Codice Deontologico, statuisce che “l’avvocato deve esercitare l’attività professionale con indipendenza, lealtà, correttezza, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza, tenendo conto del rilievo costituzionale e sociale della difesa, rispettando i principi della corretta e leale concorrenza”. Quale significato, a questo punto, si deve attribuire al sostantivo “decoro”?
Ai posteri l’ardua sentenza.
Nicola Zanni