Ai più sfugge che vi sono Colleghi i quali, purtroppo, vivono la professione, all’interno degli studi legali (dei grandi studi legali), come se fossero dei dipendenti. In realtà, avendo partita IVA, non lo sono (per l’ordinamento giuridico), ma sono «liberi professionisti».
Questi hanno un grosso limite: non possono avere altri clienti, se non lo studio legale in cui si trovano ed in favore del quale emettono fattura. Ci troviamo di fronte, quindi, al problema della monocommittenza, vale a dire di quel problema cui soggiacciono i predetti Colleghi i quali sono a completa disposizione degli studi legali in cui operano, alla stregua di lavoratori dipendenti (ma senza le tutele di questi ultimi).
Di questo, si è parlato in occasione di un interessante convegno, organizzato da AIGA il 9 Maggio 2019, in Cassa Forense, ed in occasione del quale Futuro@Forense (unitamente ad Azione Forense, 17/12, MIA, Adelante ed altre associazioni) ha presentato un documento comune sulla monocommittenza dal quale è opportuno partire.
La scelta del luogo in cui parlare del problema, non è stata casuale!
Del problema si è altresì occupato (giustamente!) il Congresso Nazionale Forense, svoltosi a Catania lo scorso Ottobre, in occasione del quale sono state presentate svariate mozioni.
Come ben sappiamo, l’Ordinamento forense sancisce l’incompatibilità tra l’iscrizione all’albo degli avvocati e la posizione di lavoratore dipendente. La logica sottesa a detto divieto risiedeva nella volontà di proteggere la posizione di indipendenza, sia morale che economica, che è caratteristica fondamentale della professione forense, intesa come professione liberale.
Lo spirito del divieto, tuttavia, risale al 1933 (art. 3 del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578) periodo storico caratterizzato da condizioni oggi non più riscontrabili in una realtà lavorativa profondamente mutata.
Il mercato del lavoro in cui si muove la moderna categoria degli avvocati vede detta categoria divisa in ragione del reddito e delle modalità di svolgimento della professione.
La titolarità del proprio studio legale, condizione irrinunciabile nel passato per poter esercitare la professione, ha ceduto il posto a forme di collaborazione diverse. Secondo dati recentemente elaborati dalla Cassa forense, esiste un esercito di colleghi, circa 30.000, che forniscono di fatto una prestazione lavorativa continuativa in favore di altri colleghi, dai quali dipendono economicamente. Questo è un dato assurdo: in pratica, circa 1/8 degli avvocati italiani si trova in condizioni di lavoro paradipendente. Sono quelli che «son sospesi» tra libera professione e lavoro dipendente, un ibrido …
Dal 2006 ad oggi il fenomeno dell’avvocato che svolge la sua prestazione esclusivamente in favore di un unico committente – studio legale o studio professionale – è divenuto la regola in diverse città metropolitane italiane.
Nelle c.d. Law firm, ossia studi internazionali il cui volume di affari è dato in maggioranza dalla consulenza stragiudiziale e per le cui dimensioni in termini di organizzazione e fatturati sarebbero assimilabili a vere e proprie società, l’organizzazione della struttura si basa esclusivamente sull’uso della formula appena descritta, ossia quella della mono committenza che, tuttavia, è equiparabile alla subordinazione tout court.
I colleghi in regime di mono committenza firmano un contratto di collaborazione in cui sono regolamentati patto di prova, tasse e contributi, sicurezza, riservatezza, esclusiva, compensi e spese e codice etico dello studio legale.
Negli studi boutique, ossia quegli studi di dimensioni ridotte rispetto ai precedenti, ma ugualmente competitivi in termini di fatturato, in cui esiste un solo dominus con diversi collaboratori che gestiscono il lavoro di detto dominus, la collaborazione alterna forme di genuina collaborazione tra colleghi a casi di mono committenza pura.
In entrambe le realtà appena descritte, quelli che impropriamente oggi vengono chiamati collaboratori, sono inseriti in una struttura eteroorganizzata, sono tenuti al rispetto di un orario di lavoro, alla turnazione feriale e vengono retribuiti mensilmente con un forfettario fisso, assumendosi quindi gli oneri di una para subordinazione di fatto, ma rinunciando alle garanzie che detta para subordinazione imporrebbe ai datori.
Lo stato dei fatti, cioè a dire la mono committenza svolta di fatto, ma in mancanza di regole entro cui prevedere diritti e doveri in capo ad entrambe le parti coinvolte, è una realtà che non può più essere ignorata, perché in un mercato del lavoro privo di regole, sta contribuendo a falsare la libera concorrenza, avvantaggiando chi può usufruire di «mano d’opera» a costi sensibilmente inferiori rispetto a quelli previsti nei normali rapporti di lavoro subordinato.
L’esigenza di una normativa ad hoc è stata avvertita anche politicamente, tanto che nel 2017 è stata depositata in Parlamento la proposta di legge AC 4409, che prevede l’eliminazione del divieto di dipendenza dalla legge professionale ed il riconoscimento della subordinazione in capo agli avvocati che svolgono la loro prestazione lavorativa alle dipendenze di fatto di altri colleghi. Sebbene la proposta non si estenda ad ogni tipo di subordinazione, ma solo ed esclusivamente a quella tra avvocati, essa non ha mancato di suscitare critiche, soprattutto tra chi ancora inneggia alla autonomia ed indipendenza dell’avvocato, temendo che l’introduzione del rapporto di subordinazione finirebbe per svilire tale indipendenza.
Tuttavia e purtroppo, a questa obiezione risponde la realtà dei fatti. Quanto è libero un avvocato in mono committenza, in questo momento? Quanto, davvero, ha la possibilità di rifiutare un incarico, quanta possibilità di definire davvero in autonomia una linea difensiva, di organizzare realmente la propria attività, di disporre del proprio tempo organizzando il lavoro secondo scadenze e tempistiche che sarebbero proprie della libera professione? È in realtà l’attuale condizione degli avvocati mono committenti che sta svilendo la professione forense.
La questione è oramai al centro di un dibattito che ha oltrepassato in confini della categoria per spingersi oltre, divenendo oggetto di analisi sia da parte della politica, come detto, che dei sindacati di categoria, da sempre attenti alle trasformazioni del mondo del lavoro.
Svolgendo tutti la medesima professione, ed essendo consapevoli del fatto che nessuno, meglio di chi quella professione la svolge per mestiere, sia in grado di regolamentarne gli aspetti più problematici, è necessario approfondire il dibattito in essere muovendo proprio dalla mozione 141.
La necessità di codificare norme già in uso nella prassi, si palesa come impossibile da rinviare ulteriormente, atteso che la regolamentazione della materia è l’unico mezzo per ricondurre nell’alveo della legalità la mono committenza di fatto.
Suona strano, in effetti, che proprio gli avvocati che da sempre lavorano in difesa degli altrui diritti, siano sprovvisti essi stessi di diritti. Ancorché autonomia ed indipendenza siano capisaldi della nostra professione, occorre tuttavia chiarire che l’autonomia non è incompatibile con la mono committenza e che il divieto nato nel 1933 attiene al codice deontologico, ma non può divenire ostacolo per l’emanazione di norme che oggi mancano e che, tuttavia, sono divenute indispensabili.
L’avvocato è una alta professionalità e sono moltissimi ormai i luoghi di lavoro in cui dipendenti con alta professionalità lavorano con molta autonomia, rispetto alle modalità di esecuzione e spesso alla condivisione stessa degli obiettivi. Si pensi ad esempio ad un medico dipendente di una clinica.
Il paziente è cliente della clinica, viene operato dal medico (subordinato) che tuttavia ha totale libertà e responsabilità di cosa accade durante una operazione. In una situazione simile si trovano gli insegnanti. O i manager, i dirigenti, i quadri delle aziende. Il mondo del lavoro attuale è ricchissimo di esempi di lavoratori dipendenti che mantengono autonomia nell’espletare la loro opera.
È chiaro che inserire la possibilità di parasubordinazione porterebbe a dover normare situazioni che prima non erano previste. Ci sono diverse possibilità in merito ad argomenti come la previdenza, la delega al patrocinio, il segreto professionale e così via.
Tuttavia crediamo che sia necessario innanzitutto prendere atto che esiste un problema, un grande problema, dato dagli avvocati mono committenti che lavorano alle dipendenze di fatto di altri avvocati. Esistono e sono la maggiore risorsa umana su cui chi svolge la professione a livello imprenditoriale può contare. Questi avvocati hanno bisogno di diritti e di tutela, perché la realtà ci dimostra che in questo momento non ne hanno.
Nicola Zanni