Ulteriori limiti e speranze per il Codice Rosso

Il Codice Rosso è, senz’altro, una grande novità introdotta nel nostro Ordinamento ed ha, certamente, bisogno di aggiustamenti. Per fare ciò, ovviamente, è necessario esaminare tutti gli aspetti critici dello stesso.

Uno dei punti dolenti del Codice Rosso è la formazione e preparazione degli operatori giudiziari.Purtroppo spesso accade che le vittime di violenza si trovino di fronte ad operatori poco addentrati in questo tipo di scenario al punto da sottovalutare la gravità degli accadimenti. Già in passato si era provveduto ad organizzare specifici corsi professionali nelle scuole dei corpi, per poliziotti, carabinieri e personale della polizia penitenziaria. Oltre al fatto che, nella pratica, già esistevano procedure codificate per interventi operativi per reati domestici e contro le donne. Ad esempio esiste il protocollo Eva (acronimo di esame violenze agite), messo a punto dalla questura di Milano e esportato in tutta Italia. L’uso del sistema Sara (dall’inglese spousal assault risk assessment) per valutare il rischio del ripetersi di abusi, in situazioni concrete.

Eppure le cronache giudiziarie continuano a riportarci notizie di femminicidi, di violenza intra familiare e di abusi sui minori, anzi il tutto pare in forte aumento. Quindi, quanto legiferato in passato, non pare sia servito granchè. Il problema, a mio modesto avviso, resta sempre quello della superficialità nel comprendere le violenze, per cui ritengo che l’entrata in vigore del c.d. Codice Rosso sia stata più un’ operazione pubblicitaria e di propaganda politica. La formazione già viene fatta, da vent’anni, assieme ad altre attività fondamentali, al punto che in Italia siamo un punto di riferimento, possiamo mettere a disposizione il nostro know how. Invece la nuova legge taglia del tutto fuori i centro di violenza, anche dalla formazione. Si sarebbero dovute operare scelte obbligate e dovute, necessarie per tradurre in concreto la Convenzione di Istanbul per la prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, recepita dall’Italia nel 2013. Da parte mia non vi è volontà di contestare in toto il codice rosso, ma far comprendere che esso sta diventando un problema a livello pratico,  dato dall’elevato numero di denunce, di  gestione delle stesse, che ne  impedisce di estrapolare i casi più gravi.
In sintesi, cosa accade? Si consiglia alle vittime di andar via di casa, ma se non si fa in tempo a fuggire e a  procurarsi (da sola) un altro luogo di abitazione, sei tu vittima ad “ essertela cercata” perchè  non te ne sei andata e dunque se il tuo ex ti uccide è colpa tua. Personalmente, ravviso l’inutilità di provvedimenti intrisi di paternalismo che il governo redige e approva senza aver consultato chi, di donne vittime di violenza di genere, si occupa davvero. A cosa serve la denuncia se l’unica cosa che si può fare è consigliare alla vittima di fuggire? E perché non vi è alcun collegamento tra le forze dell’ordine e i centri antiviolenza? Perché ci si preoccupa di indicare alla donna l’esistenza di case rifugio? Perché è lei che deve scappare e procurarsi da sola un posto in cui vivere?
Le case rifugio sono vitali in questi casi e mentre Amministrazioni e Stato tagliano risorse a chi da sempre si occupa di salvare la vita delle donne, mentre le case rifugio rischiano di chiudere o sono state già chiuse per mancanza di fondi, le donne continuano a morire ammazzate. Perchè la parolina chiave del Codice Rosso è inserita nell’art. 21: “invarianza finanziaria”. Si dovrebbe fare tutto con le risorse che ci sono. Ah ecco. Ma quali risorse?
Cos’è dunque il Codice Rosso? Un modo per annoverare un aumento delle denunce? Ma se alle denunce non segue un percorso puntuale di aiuto nei confronti della vittima, non consigli paterni, ma strumenti reali che lei possa usare, allora a cosa serve ? Una denuncia, se lui continua a poter accedere alla vita della donna, non fa che acuire il problema. Il violento diventa ancora più violento e addirittura penserà che lei abbia tradito la regola dell’omertà che vige in questi casi. “ Mi stai rovinando la vita, gli dirà lui, mentre la picchia e la uccide”.
Non è la vittima che deve procurarsi un posto in cui andare a vivere in alternativa. Non è così facile neppure abbandonare casa propria. Se la denuncia indica un pericolo reale è a lui che bisogna consigliare di non avvicinarsi a lei. E’ a lui che deve essere impedito di ucciderla. In condizioni di così grave pericolo una donna non può essere lasciata da sola a fare le valigie mentre il violento le rompe la porta per entrare.
Ecco il motivo per il quale ritengo il Codice rosso un’inutile  propaganda sulla pelle delle donne. Come per ogni legge fatta senza consultare le donne stesse. La prossima volta che una donna muore ammazzata dopo aver denunciato molte volte (cosa che accade troppo spesso), chiediamoci il perché. Non è colpa della vittima, ma è colpa della inefficacia e negligenza dello Stato che provoca quella morte.
La questione primaria che un governo serio dovrebbe risolvere è quella della prevenzione. Disinnescare l’odio di genere, ad esempio. Disinnescare l’odio significa anche non mettere in testa agli uomini che il divorzio sia un’arma che favorisce le donne alimentando i soliti pregiudizi che vorrebbero tutte le donne divorziate ricchissime e annoiate ad occupare il castello sottratto all’ex marito. Disinnescare vuol dire togliere l’arma dalle mani degli assassini facendo in modo che fin da bambini si impari il rispetto nei confronti delle persone di altri generi. E già che ci siamo sottolineerei un errore di fondo: “ la violenza di genere” non è solo quella contro le donne, né tantomeno contro le donne cui l’assassino era legato affettivamente. Violenza di genere è privare una donna del diritto alla propria autodeterminazione.
Un’altra questione riguarda l’uso dei braccialetti elettronici. Quasi tutti gli esemplari in uso, insufficienti per la platea dei potenziali interessati, non sono dotati di gps: segnalano se un soggetto agli arresti domiciliari o in detenzione domiciliare esce da un perimetro delimitato (la casa), ma non seguono e non monitorano gli spostamenti del portatore. A ottobre 2018 sarebbe dovuta arrivare una fornitura di modelli evoluti forniti di geolocalizzatore, anche in funzione antistalking, in grado di rilevare i movimenti del persecutore e le possibili violazioni della “zona di sicurezza” attorno alla vittima, messa nelle condizioni di rilevare la presenza dell’aggressore e dare l’allarme . Ma ritardi burocratici, legati al collaudo, stanno allungando i tempi.
Per concludere: Il Codice rosso, a mio parere, ha avuto il medesimo effetto placebo della L. n.119/2013, teso a tacitare le indignazioni sorte per le tante, troppe donne ammazzate. Le donne che subiscono violenza, come i centri antiviolenza sanno, non denunciano subito: vanno trattate bene e accolte a prescindere dal fatto che denuncino e l’automatismo non le incoraggia di certo a sentirsi capite. Serve tempo, serve recuperare calma e serve la sicurezza di poter denunciare senza poi subire ritorsioni.
Chi impedisce al carnefice di attendere la donna e ucciderla non appena fuori dall’ospedale o dall’ufficio del magistrato? Perché nella legge non si parla di case rifugio, di fondi per dare alle donne la possibilità di ricominciare altrove.
La violenza di genere si previene con una condanna precisa nei confronti di ogni gesto, frase, atteggiamento che violi la libertà delle donne.Questa legge non serve perché il carcere non educa. Non serve perché nella formazione della polizia non si parla di coinvolgimenti di chi opera nei centri antiviolenza, che di fatto non sono stati ascoltati. Questa legge è solo frutto di una visione paternalististica che solletica l’ego dell’eroe che arriva dopo, sempre e solo dopo, che la donna è già stata vittima di violenza. E prima? Durante? Dobbiamo adottare l’autodifesa? Ah già, quella no. Per il governo l’autodifesa è il diritto di chi vuole proteggere una proprietà materiale. Le donne, invece, per difendersi devono dichiarare appartenenza: al marito, al fidanzato, al padre o allo Stato.
Nella legge non sono previsti interventi per accorciare i tempi del processo penale, che in media dura sette-otto anni, talvolta di più, e una sentenza definitiva dopo dieci anni (schivando la prescrizione) non dà giustizia a nessuno. E’ fondamentale mettere in campo interventi integrati e a più livelli, allontanando le donne dai violenti insieme ai figli, sostenendole nei percorsi di autonomia economica. O continuerà ad esserci il rischio che ritirino le querele e le archiviazioni, sintomo del fallimento del sistema, resteranno in percentuale elevate.
La denuncia è solo il primo passo di un percorso che per le donne spesso si trasforma nell’ennesimo calvario: nelle aule dei Tribunali la loro parola non è creduta, la loro vita privata giudicata, la violenza subita non viene presa in considerazione quando si tratta dell’affido dei figli. Il Codice, pur introducendo una lunga serie di nuovi reati, tra cui il quello di revenge porn, di costrizione al matrimonio e il reato cosiddetto “reato di sfregio”, rischia di rivelarsi dannoso, diventando il pretesto per dividere le donne nelle due categorie di vittime inermi o bugiarde. Tutti questi problemi restano insoluti. Non si investe un euro per la formazione di forze dell’ordine e personale giudiziario, terribilmente necessaria perché la violenza contro le donne, di cui tutti parlano, è un fenomeno che in realtà pochi conoscono davvero.
I dati parlano di una vittima ogni 72 ore e ci restituiscono l’immagine di un Paese nel quale, evidentemente, il problema della violenza contro le donne è prima di tutto culturale. Ed è lì che bisogna intervenire, a fondo e con convinzione, per cambiare davvero le cose.
In generale, l’impressione è che il Codice Rosso parta proprio da queste ottime intenzioni, ma fallisca nel fornire strumenti concreti di sostegno alle donne nel momento in cui decidono di riappropriarsi della propria vita: è impensabile risolvere il grave e complesso problema della violenza di genere adottando solo una prospettiva securitaria. Pene più severe e processi più rapidi sono palliativi di fronte alle difficoltà che una donna deve affrontare nel percorso di uscita dalla violenza. In questo, i centri antiviolenza offrono uno strumento prezioso, ma non possono sostituirsi alle istituzioni. Quello che possono fare è offrire un know how: quando si rivolgono a una di queste strutture le donne vengono accompagnate nel racconto della propria esperienza e protette immediatamente sottraendole ai luoghi in cui si sentono o sono in pericolo, e sostenute in un percorso di assistenza legale, psicologica, sanitaria, di confronto con altre donne e di solidarietà. L’obiettivo è che possano uscire dalla condizione di vittime, riconquistare la propria dignità e affrontare con coraggio gli uomini violenti che vorrebbero annientarle.
Io proporrei di risolvere il problema a monte,  formando  i piccoli al rispetto degli altri a prescindere da razza, colore e sesso, sin dalla tenera età. Percorrere quella strada che io amo definire di   “educazione sentimentale”; quindi, formare i piccoli ad essere uomini e donne, con mentalità diverse, da quello che vediamo, ma per questo ci vorrà molto tempo e pazienza.
Con il Codice Rosso possiamo solo sperare che un altro, piccolo tassello sia stato posizionato sulla tela del quadro della giustizia verso il genere femminile, ancora tutto da dipingere. Penso, purtroppo, che il processo di legalita’ per i crimini contro le donne, sia lento e faticoso, soprattutto nel nostro contesto culturale , in cui machismo e diffusi pregiudizi verso il genere femminile hanno connotato ogni ambito da quello socio-culturale a quello lavorativo. Ed e’ in questo contesto che abusi e scelletarezze traggono linfa vitale.
Maria Antonietta Rita Labianca

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