È valida la vendita di un immobile che presenta difformità rispetto al titolo edilizio: lo afferma la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 22168 del 5 settembre scorso, emessa dalla III sezione.
Nel caso di specie i proprietari citavano in giudizio il promissario acquirente chiedendo la condanna di quest’ultimo al pagamento dell’indennità di occupazione di immobile di cui il convenuto era stato immesso in possesso a seguito della stipula del contratto preliminare. Il Tribunale condannava il promissario acquirente e rigettava la domanda di quest’ultimo di esecuzione del preliminare ai sensi dell’art. 2932 cod civ, in quanto le difformità rispetto alla licenza edilizia, sanabili ma non condonate, erano considerate come condizione di nullità di contratto.
La Corte d’Appello confermava la sentenza di primo grado, e pertanto l’acquirente, soccombente, presentava ricorso per Cassazione, sostenendo che le difformità urbanistiche, per quanto esistenti, non rendevano nulla la compravendita.
Infatti gli artt. 17 e 40 comma 2 della l. 47/1985 disponevano l’obbligo di indicare gli estremi del permesso di costruire e del permesso in sanatoria (concessione ad edificare o concessione rilasciata in sanatoria) negli atti di trasferimento della proprietà, pena la nullità dell’atto medesimo. L’art. 17, per quanto abrogato, dal DPR 380/2001, è stato ripreso dal comma 1 dell’art. 46 di quest’ultimo, non prevedendo quale causa di nullità del contratto la difformità rispetto al titolo edilizio, ma solo l’assenza di quest’ultimo.
Anzi, il comma 4 dispone che l’indicazione della concessione edilizia (ovviamente se presente) possa essere contenuta in atto successivo, redatto nella stessa forma del primo atto, che quindi viene sanato proprio dal successivo atto.
La Cassazione ha così modo di chiarire la differenza tra mancanza del titolo edilizio, che determina la nullità della vendita, e difformità della costruzione rispetto ad un valido titolo; quest’ultimo caso infatti non è previsto quale causa di nullità del contratto traslativo della proprietà dall’art. 46 del DPR 380
Pertanto, secondo la pronuncia della Cassazione, la difformità dell’immobile rispetto alle prescrizioni del titolo edilizio non comporta la non commerciabilità del bene, come erroneamente sancito nelle pronunce di primo e secondo grado, dovendosi pertanto distinguere tra mancanza del permesso di costruire, “la cui mancanza è oggetto della sanzione della nullità che opera nei rapporti privatistici, dalla condotta illecita per violazione delle norme urbanistiche, che vede come parte offesa esclusivamente l’Amministrazione pubblica, e che trova, invece, sanzione sul piano del diritto amministrativo, nel provvedimento di demolizione ex art. 31, comma 2 e 3, Dpr n. 380/2001“.
Sempre secondo la pronuncia della Suprema Corte il legislatore ha inteso fare una scelta ben precisa, identificando in maniera esplicita le ipotesi di nullità, non suscettibili di estensione, visto che anche la mancata indicazione degli estremi del titolo edilizio, causa di invalidità del contratto, può essere sanata tramite un recupero “ex post” dell’elemento formale-dichiarativo mancante nel contratto”.
Elemento essenziale del contratto sarà così la conformità formale tra la dichiarazione prodotta nell’atto di vendita, o in atto successivo, ed il titolo edilizio rilasciato dalla componente autorità, al fine di permettere all’acquirente di verificare la regolarità urbanistica dell’immobile e compiere quindi una scelta più consapevole sul bene che va ad acquistare.
Già le Sezioni Unite si erano pronunciate in tal senso (sentenza n. 8230 del 22/03/2019) come ricorda la sentenza in oggetto, affermando che “in ipotesi di difformità sostanziale tra titolo abilitativo enunciato nell’atto e costruzione,l’acquirente non sarà esposto all’azione di nullità, con conseguente perdita diproprietà dell’immobile ed onere di provvedere al recupero di quanto pagato,ma, ricorrendone i presupposti, potrà soggiacere alle sanzioni previste a tutela dell’interesse generale connesso alle prescrizioni della disciplina urbanistica“.
Pertanto la domanda di esecuzione in forma specifica che il promissario acquirente aveva proposto ex art 2932 c.c. in via riconvenzionale non poteva ritenersi ammissibile, proprio in virtù della mancanza della dichiarazione da parte del venditore relativa agli estremi della concessione edilizia ex art. 40 l. 47/85 ed art. 46 DPR 380/01, che pure risultava esistente da accertamento effettuato dal CTU del giudizio di primo grado, il quale aveva rilevato anche l’esistenza di domanda di condono edilizio presentata dal promissario acquirente per le modifiche apportate sull’edificio rispetto al progetto originario di cui alla licenza di costruire; d’altro canto la sentenza ricorda come la dichiarazione sostitutiva con gli estremi del titolo edilizio può essere prodotta anche in corso di causa, “con l’ulteriore conseguenza che sia l’allegazione, che la documentazione della sua esistenza, si sottraggono alle preclusioni che regolano la normale attività di deduzione e produzione delle parti e possono quindi avvenire anche nel corso del giudizio di appello, purchè prima della relativa decisione“.
Anzi, nell’inerzia o rifiuto da parte del venditore, potrà essere il promissario acquirente a produrre la documentazione attestante la regolarità urbanistica, o la dichiarazione sostitutiva del titolo edilizio, al fine di ottenere l’accoglimento della domanda giudiziale di esecuzione in forma specifica del contratto preliminare.
La Suprema Corte annullando la precedente sentenza della Corte d’Appello, cui rinvia la causa, invita il ricorrente a produrre la dichiarazione sostitutiva nel corso del giudizio di secondo grado che verrà ad instaurarsi, superando così il vizio di nullità del contratto consistente nella mancanza dell’indicazione del titolo edilizio che ha autorizzato la costruzione dell’edificio benchè in maniera difforme dal bene attualmente esistente, che dovrà comunque considerarsi come un immobile legittimamente soggetto a compravendita.
Francesco Saverio Del Buono