Le scelte normative italiane di risposta all’emergenza. Riflessioni in termini di legittimità degli atti e principio di legalità

La situazione attuale, lo stato emergenziale con la conseguente decretazione impone a Noi operatori del diritto severe riflessioni circa la gerarchia delle fonti ed il puntuale rispetto della Costituzione. 

La violenta compressione del diritto di libera circolazione e di quello, non meno importante, della iniziativa economica, con tutte le ripercussioni pratiche che nel corso dei prossimi anni giungeranno nelle aule di Giustizia richiedono oggi un confronto sereno con il mondo accademico; per questa ragione abbiamo chiesto alla Professoressa Laura Fabiano un suo prezioso contributo. 

La gestione della vicenda sanitaria connessa al covid 19 ha richiesto, nel torno di pochissimo tempo, l’adozione di una serie di misure normative le quali hanno predisposto la temporanea parziale compressione di numerosi diritti individuali e collettivi anche di tipo fondamentale. Tale disciplina, contenuta tecnicamente in norme di rango secondario quali sono i dpcm, gode tuttavia di copertura legislativa stante la previsione degli stessi disposta nell’art. 3 del dl. 23/2/2020 n. 6 (Convertito in legge con modificazioni con l. 13 del 2020).

Il detto d.l. 6 del 2020, ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di emanare disposizioni per contrastare l’emergenza epidemiologica da covid -19, adottando misure di contrasto e contenimento alla diffusione del predetto virus ha provveduto ad elencare, nell’art. 1, una serie di provvedimenti normativi passibili di adozione da parte delle autorità (nella specie il presidente del Consiglio dei ministri) disponendo tuttavia all’art. 2 una norma di chiusura piuttosto ampia ove stabilisce che “le autorità competenti possono adottare ulteriori misure di contenimento e gestione dell’emergenza al fine di prevenire la diffusione dell’epidemia da Covid-19 anche fuori dei casi di cui all’art. 1 comma 1”. Resta fermo, peraltro, per i casi di estrema necessità ed urgenza, il potere del Ministro della salute, delle regioni e dei sindaci di emettere ordinanze, nelle more dell’adozione dei suddetti decreti (articolo 3, comma 2).

La legittimità dei dpcm adottati, cui la decretazione d’urgenza ha fornito copertura, è subordinata alla condizione che la riserva di legge che è posta a presidio, in Costituzione, dei diversi diritti che gli stessi dpcm vanno a limitare sia relativa e, qualora sia rinforzata, i provvedimenti adottati rientrino, per contenuto, fra quelli consentiti dalla stessa limitazione costituzionale.

Tali condizioni sembrano rispettate per quanto concerne la limitazione della libertà di circolazione (art. 16 Cost.) e di riunione (art.17 Cost): la copertura in termini di legittimità costituzionale si rinviene nella constatazione per cui la tutela della salute pubblica nell’ambito di una emergenza sanitaria sia finalità rientrante a pieno titolo nell’alveo “motivi di sanità e sicurezza” ovvero di “sicurezza o di incolumità pubblica” che giustificano la limitazione della circolazione e del diritto a riunirsi. Con riguardo invece alla compressione della libertà di iniziativa economica privata (art. 41 Cost) la problematica può rivelarsi più complessa giacché la clausola costituzionale cui si fa riferimento per giustificarne la compressione attraverso misure emergenziali è nel divieto di svolgimento della stessa “in modi che si ponga in contrasto con l’utilità sociale o da recare danno alla, alla libertà ed alla dignità umana”.

Con particolare riguardo alle garanzie poste a presidio della libertà di circolazione nell’art. 16 della Costituzione alcuni dubbi hanno riguardato l’iniziale carattere territorialmente circoscritto delle normative di contenimento (le quali tuttavia in brevissimo tempo sono state allargate all’intero territorio nazionale come “area protetta”). Soccorre a sciogliere tali dubbi una risalente giurisprudenza costituzionale che nella decisione 68 del 1964 afferma “I motivi di sanità o di sicurezza possono nascere da situazioni generali o particolari. Ci può essere la necessità di vietare l’accesso a località infette o pericolanti o di ordinarne lo sgombero; e queste sono ragioni – non le uniche – di carattere generale, obiettivamente accertabili e valevoli per tutti”.

Non suscita inoltre particolari dubbi la legittimità delle normative adottate in relazione al parametro rappresentato dall’art. 32: una giurisprudenza acclarata della Corte costituzionale afferma difatti che la legge impositiva di un trattamento sanitario non è incompatibile con il detto parametro costituzionale se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacché proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività , a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale (cfr. in particolare la sentenza n. 307 del 1990).

Qualche perplessità in più suscitano le limitazioni poste dai dpcm qualora si pongano in contrasto con la libertà personale (art. 13), la libertà di domicilio (art.14) e la libertà di professione religiosa (art.19). Per le prime due il problema attiene alle garanzie, in termini di riserva assoluta di legge, che presidia tali diritti: ci si riferisce ad esempio alle disposizioni sulla quarantena con sorveglianza attiva, normative che in termini limitativi sembrano assimilabili al ricovero coatto misura che la giurisprudenza costituzionale ha ampiamente riconosciuto in passato come limitativa della libertà personale (Sentenze 74/1968; 223/1976; 160/1982). Con riguardo alla libertà di espressione religiosa invece, il limite del buon costume posto in Costituzione quale parametro idoneo a limitare l’esercizio del culto in qualsiasi forma, individuale e associata ed in qualsiasi luogo pubblico o privato, pare piuttosto fragile quale aggancio normativo a copertura della limitazione.

Chissà se l’emergenza corrente nella sua gravità potrà sanare gli eventuali vizi che nel tempo potranno dunque essere rilevati.

Le valutazioni atterranno certamente anche all’alterazione della normalità costituzionale attualmente in corso. Già nei primi anni ottanta del resto, nella sentenza 15/1982 sui limiti massimi della carcerazione preventiva disposti in ragione delle “obiettive difficoltà che esistono per gli accertamenti istruttori e dibattimentali” nei procedimenti che hanno ad oggetto “i delitti commessi per finalità di terrorismo e di evasione dell’ordine democratico”, la Corte ebbe ad affermare con chiarezza che “di fronte ad una situazione d’emergenza […] Parlamento e Governo hanno non solo il diritto e potere, ma anche il preciso ed indeclinabile dovere di provvedere, adottando una apposita legislazione d’emergenza”,

La Corte aggiungeva tuttavia la considerazione per la quale “Se si deve ammettere che un ordinamento […] versa in uno stato di emergenza, si deve, tuttavia, convenire che l’emergenza, nella sua accezione più propria, è una condizione certamente anomala e grave, ma anche essenzialmente temporanea. Ne consegue che essa legittima, sì, misure insolite, ma che queste perdono legittimità, se ingiustificatamente protratte nel tempo”.

Speriamo dunque (superata l’epidemia) di tornare al più presto alla normalità.

Una valutazione in termini di legittimità delle disposizioni limitative poste dal governo riguarda il rispetto del canone della ragionevolezza intesa come coerenza, congruenza, congruità, proporzionalità, necessità, misura, pertinenza, delle limitazioni poste dalle norme dette tenendo peraltro conto che insieme alla problematica degli automatismi legislativi, il bilanciamento dei diritti è certamente uno degli ambiti privilegiati del giudizio di ragionevolezza e proporzionalità nella giurisprudenza costituzionale italiana.

Su tale bilanciamento, ed in particolare sul rapporto fra diritto alla salute e altri diritti costituzionalmente garantiti la Corte costituzionale si è notoriamente pronunciata con Sentenza 85 del 2013 (in merito al caso Ilva di Taranto) affermando che “Tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre «sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro» (sentenza n. 264 del 2012). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona. Per le ragioni esposte, non si può condividere l’assunto del rimettente giudice per le indagini preliminari, secondo cui l’aggettivo «fondamentale», contenuto nell’art. 32 Cost., sarebbe rivelatore di un «carattere preminente» del diritto alla salute rispetto a tutti i diritti della persona”; pertanto “La Costituzione italiana, come le altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi. La qualificazione come “primari” dei valori dell’ambiente e della salute significa pertanto che gli stessi non possono essere sacrificati ad altri interessi, ancorché costituzionalmente tutelati, non già che gli stessi siano posti alla sommità di un ordine gerarchico assoluto. Il punto di equilibrio, proprio perché dinamico e non prefissato in anticipo, deve essere valutato – dal legislatore nella statuizione delle norme e dal giudice delle leggi in sede di controllo – secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, tali da non consentire un sacrificio del loro nucleo essenziale”.

Tuttavia la medesima giurisprudenza costituzionale ha diverse volte posto in evidenza l’esistenza di un “nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana” (Corte Costituzionale, sentenza 309/1999); giurisprudenza questa che, nata paradossalmente per porre un limite alla discrezionalità legislativa nel bilanciamento fra salute e limitatezza delle risorse economico finanziarie risulta in effetti estremamente significativa quale riferimento per valutare, al momento, la legittimità della discrezionalità della normativa emergenziale.

Qualche dubbio in termini di ragionevolezza può suscitare invece la disposizione posta nella clausola “aperta” posta dall’art. 2 del decreto legge n. 6 del 2020. Non sembra peraltro a prima lettura che la clausola contenuta nell’art. 2 possa essere mitigata dalla affermazione contenuta nello stesso decreto legge 6/2020 ove, all’art. 1 si prescrive che ogni misura di contenimento e gestione deve essere “adeguata e proporzionata”. I dubbi circa l’ampiezza di tale disposizione sono confermati dal fatto che anche in sede di conversione del decreto legge il Comitato permanente per i pareri della I Commissione permanente della Camera, in un parere espresso il 25 febbraio 2020, ha invitato la Commissione di merito a valutare l’opportunità di specificare se l’articolo 2 intendesse far riferimento a misure ulteriori rispetto all’ambito territoriale di cui all’articolo 1, comma 1, o a misure ulteriori rispetto a quelle elencate dall’articolo 1, comma 2, ovvero ad entrambe le ipotesi (Dossier del Servizio Studi sul’A.S. “Conversione in legge con modificazioni del decreto legge 23 febbraio 2020 n.6 recante misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid – 19”, marzo 2020, n. 223/1).

Anche se soccorre alla sua legittimazione quanto affermato dalla Corte costituzionale già in tempi risalenti con Sentenza 1130 del 1988  (“il giudizio di ragionevolezza, lungi dal comportare il ricorso a criteri di valutazione assoluti e astrattamente prefissati, si svolge attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti. […] l’impossibilità di fissare in astratto un punto oltre il quale scelte di ordine quantitativo divengono manifestamente arbitrarie e, come tali, costituzionalmente illegittime, non può essere validamente assunta come elemento connotativo di un giudizio di merito, essendo un tratto che si riscontra […] anche nei giudizi di ragionevolezza.”) rimane infatti vero che una norma aperta di tale genere delegifica le possibilità di reazione all’emergenza in termini a priori forse troppo poco prevedibili.

Laura Fabiano

(Professore associato di Diritto pubblico comparato

presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli studi di Bari A. Moro)

 

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