Per le organizzazioni sociali i periodi di crisi sono momenti nei quali potersi affermare o soccombere. Ciò accade in tutti i campi ed in particolar modo in quello politico.
È fatto notorio che il coronavirus in versione pandemica abbia mostrato la corda delle istituzioni, mettendo in crisi la classe politica che si è dovuta affidare alla guida cieca, quando non contraddittoria, dei cosiddetti scienziati, tant’è che il Governo ne ha dovuti reclutare oltre 400, costituendo di fatto una terza camera parlamentare che detta orientamenti non solo in materia sanitaria ma anche di libertà individuale e collettiva.
Ora, che le conseguenze della pandemia abbiano colpito anche il comparto giustizia, già di per sé in profonda crisi, non deve suscitare scandalo tra gli addetti ai lavori, specie tra gli avvocati che, tra gli addetti ai lavori, dovrebbero essere i più accorti.
È andato, invece, in scena uno spettacolo in cui principi del foro, estemporaneamente ed in ordine sparso, in ogni parte d’Italia, si sono lasciati andare ad ogni forma di protesta.
La consegna delle chiavi degli studi o delle toghe costituiscono la visione plastica di una categoria che ha perso la propria identità, e che ha dimenticato che sotto quelle toghe ci sono gli assistiti, le loro vite, le loro famiglie.
Avvocati che danno prova di non essere Avvocatura, di non essere quella Istituzione di rango costituzionale di cui tanto si è parlato ma alla quale ancor poco si crede, replicano e si accodano alle proteste di chi, per un motivo o un altro, sta per chiudere la bottega e dunque legittimamente protesta nei confronti dello Stato che non prende misure idonee a consentirne la sopravvivenza.
Con questo genere di proteste, in realtà, consegnando chiavi e toghe, protestando sotto i palazzi di giustizia, gli avvocati finiscono per dare ragione a chi li tiene fuori dalle cancellerie non facendoli accedere, o a chi li tiene fuori dei corridoi in assembramento in attesa che la causa sia chiamata in aula dove il magistrato ed il cancelliere sono messi in sicurezza, o a chi gli impone di prendere appuntamento per poter richiedere le copie di un fascicolo. Con questo genere di proteste l’avvocato tradisce la propria professione relegandosi ad semplice utente della giustizia, e non ad attore fondamentale di essa, alla pari del magistrato.
Vero è che l’avvocatura è orfana di una Corporazione, nel senso del termine più alto e nobile. Gli eventi lo dimostrano. Una presenza qualificata dell’Avvocatura nelle Istituzioni, questa è la vera sfida. Del resto, non ci può essere Giustizia senza gli avvocati, così come non c’è giustizia senza magistrati. Può forse un Giudice giudicare senza che la parte sia rappresentata da un avvocato? Questo è il momento per far capire alle istituzioni che liberalità della professione significa ben altro. Questo e non altro è il momento per far capire che non siamo né utenti, né consumatori. L’Avvocatura non può non rientrare nelle dinamiche vitali dello Stato e tanto fino a quando lo Stato si farà carico di esercitare la giustizia e non delegherà a terzi il controllo dell’applicazione delle regole di civile convivenza.
Spero che a questo punto non ci si chieda: ma allora, cosa possiamo fare? Perbacco! Siamo o non siamo avvocati? Si pretenda dunque l’applicazione delle norme, e se viene impedito o limitato l’esercizio della professione ricordiamo a costoro, con atti ed esposti, che ostacolare, impedire o interrompere la nostra attività è violazione del diritto di difesa garantito dalla costituzione ed in taluni casi è anche interruzione di pubblico servizio. Mai e poi mai un passo indietro, mai consegnare la toga. Ma poi a chi?
Paolo Scagliarini