Da un anno Futuro@Forense dà voce a chi ha intrapreso l’insostituibile missione di difendere le ragioni di coloro che ricorrono alla giustizia statale, ovvero di coloro che sono richiamati dallo Stato per ragioni di giustizia.
In entrambi i casi, chi è chiamato a tanto concorre, in maniera unica, a costituire quella machina della giustizia con la quale lo Stato assolve ad uno dei suoi oneri fondamentali per garantire la pace sociale.
Purtroppo, in questi ultimi tempi, l’immagine che si ha dell’avvocato è di una figura professionale connessa alla sola difesa degli interessi del cittadino ed alla sua rappresentanza in giudizio. Marginale, se non totalmente scomparsa, è invece la sua funzione di fare giustizia, fortemente ricondotta all’interesse pubblico proprio dello Stato e complementare alla magistratura.
Eppure, se condotti per mano, tutti concordano nell’ammettere che senza l’avvocatura non ci possa essere amministrazione della giustizia. Persino il Consiglio Nazionale Forense, in un suo documento, ha citato una sentenza del lontano 1957 dove si affermava che “il diritto di difesa è intimamente legato alla esplicazione del potere giurisdizionale”. Eppure l’avvocato, agli occhi dei più sembra oggi dover ripiegare la sua libera professione unicamente sugli interessi della parte rappresentata o patrocinata.
Tale sentimento, largamente diffuso non solo nell’opinione pubblica più distratta, insieme alla tentazione dello Stato di abdicare il fare giustizia in favore di organismi privati, ha ancor più mortificato le prerogative dell’attività legale.
Questo pensare l’avvocato quale semplice rappresentante legale del cittadino, e a volte, ahimè, il nostro accondiscendere a questa funzione, fa sì che anche gli amministrativi, addetti alle funzioni di cancelleria o di segreteria dei tribunali e delle corti, a torto, lo considerino utente se non consumatore di un servizio statale, con ogni evidente conseguenza ivi compresa quella di considerarlo contrapposto al sistema giustizia e non invece facentene parte.
Questo dunque l’impegno assunto dalla Testata: sollevare un dibattito per riportare l’Avvocatura nella sua giusta collocazione, quella che la Carta costituzionale, più o meno cripticamente, le ha riservato. Che senso avrebbe, al contrario, la presenza di cultori del diritto e/o avvocati in seno al Consiglio Superiore della Magistratura o della Corte Costituzionale? Che senso avrebbe il richiamo alla “difesa” come diritto inviolabile?
Ma se così è, si comprende anche la critica che da queste colonne è stata riservata ad iniziative di legittima protesta che però, a nostro sommesso parere, per le modalità scelte, stridono col ruolo istituzionale.
Avvocati insopprimibili amministratori di Giustizia, dunque. Non consumatori.
Com’è chiaro il problema resta innanzitutto politico, ma anche culturale.
Paolo Scagliarini